Anime
nere di Francesco Munzi
parte da Amsterdam per portarci in poche vorticose scene ad Africo,
passando per Milano. Dal narcotraffico globale alla lingua pietrosa
dell'Aspromonte, dunque. Dagli intrecci tra economia criminale e economia
reale, alla voce del sangue. Il sangue di due pecore rubate in un ovile a
Lecco e scannate così, su due piedi, per festeggiare l'incontro di due
fratelli. Ma anche il sangue versato decenni prima nella loro Calabria,
che torna a farsi sentire. (...) Girato nei luoghi che racconta, parlato
quasi sempre in dialetto con sottotitoli, sorretto da un cast che fonde a
meraviglia ottimi attori e non professionisti, il primo grande film sulla
criminalità calabrese (che non è solo 'ndrangheta) nasce dall'incrocio tra
due sguardi e due passioni. Gioacchino Criaco, scrittore e giornalista
calabrese, una vita passata a interrogarsi sulla sua terra e un fratello
chiuso in un carcere di massima sicurezza, ci ha messo la conoscenza di
prima mano dell'Aspromonte, storia, mentalità, tradizioni, leggi non
scritte, travasata nel romanzo Anime nere. Francesco Munzi la
voglia di rappresentare quel mondo evitando i cliché. Per leggere nel buio
di quelle anime qualcosa che forse non riguarda solo loro ma tutto il
nostro paese corrotto e ostinatamente premoderno. Si sente la grande
lezione antropologica di certo nostro cinema, da Visconti a Rosi e De
Seta, da cui Munzi prende il gusto del dettaglio e la limpidezza con cui
descrive i rapporti: di forza, di parentela, di sangue, di affari.
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Anime
nere di Francesco Munzi
è un film straordinario per forza emotiva e coerenza narrativa, specie di
tragedia elisabettiana ambientata nella parte più cupa della Calabria,
dove il destino che incombe su una famiglia finisce per chiedere il suo
inevitabile tributo di sangue. Ma è insieme un ritratto finissimo e
preciso di un modo di vivere che sembra sfidare i secoli e le leggi,
ancorato a vecchie tradizioni e usanze immodificabili che aggiunge al
dramma un altro e più concreto livello di lettura, quasi da antropologia
dei costumi. Un incontro raro, tra storia e contesto, tra forza della
finzione e concretezza del reale, che fa del film una splendida riuscita
(...). Munzi, che ha firmato la sceneggiatura con Fabrizio Ruggirello
(scomparso recentemente: a lui è dedicato il film) e Maurizio Braucci,
mette in scena la storia con una linearità «classica», attento alle
psicologie così come ai colpi di scena, per delineare coi caratteri dei
fratelli tre modi diversi di vivere l'inevitabile modernizzazione della
Calabria (...). Ecco allora che al centro del film non c'è più una «storia
di 'ndrangheta» ma piuttosto una riflessione più ampia e complessa sui
rapporti tra cultura arcaica e le «tentazioni» della modernizzazione
(tentazioni che vogliono dire soprattutto soldi e droga) e che nessuna
mediazione culturale o politica sembra in grado di controllare. Non lo
Stato né la Legge, disprezzati nei loro rappresentanti (...), ma neppure
il senso della comunità, che si frantuma di fronte al risuonare di un
destino che sente solo le ragioni del sangue e della vendetta. Munzi, che
ha ambientato il suo film nel triangolo più ostile della Locride (Africo,
Platì e San Luca) e che ha fatto parlare i suoi personaggi nel dialetto
locale (naturalmente sottotitolato), sfrutta le sue origini
documentaristiche per rimarcare legami sotterranei tra le persone e i loro
comportamenti (...), sfrutta al meglio un cast eccezionale per forza
espressiva e verosimiglianza (dove accanto ad attori professionisti
recitano abitanti di Africo e dintorni) e tesse così la rete di un
racconto dove il realismo dell'ambientazione e la giustezza dei
comportamenti finiscono per esaltare ancora di più l'esplosione della
tragedia finale, vero pugno nello stomaco che lascia ammutoliti e ammirati.
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