Storie
d’amore e di dolore, conflitto con la madre d’uno showman travestito
newyorkese, in una commedia amaro-spiritosa antiquata e molto
sentimentale, derivata da un premiato testo teatrale a suo tempo scritto e
recitato dal protagonista Harvey Fierstein, ancora divisa in tre atti.
Manate sul sedere a parte, il film non osa presentare rapporti carnali
omosessuali (come hanno
invece fatto registi europei quali Pedro Almodovar
e Paul Vecchiali), ma ha il coraggio delle parole (“Questa è la mia
vita, lo capisci, mamma? Questo sono io, e voglio rispetto”). La
vicenda è collocata negli anni pre-Aids 1971-1980, ma è dedicata a “tutta
la gente impegnata nella lotta contro l’Aids”. Nel prologo, naturalmente,
la madre Anne Bancroft scopre il suo bambino nell’atto di truccarsi e
vestirsi da donna. Si comincia con le contraddizioni dell’innamorarsi d’un
bisessuale bellissimo (Brian Kerwin); si procede con un vero durevole
grande amore per Matthew Broderick, spezzato da teppisti che massacrano a
morte l’amato, e con il desiderio di paternità appagato adottando un
quindicenne omosessuale; si finisce con la ricomposizione del conflitto
con la madre. Serve altro?
Sono divertenti alcune battute di Fierstein (“Per quanto ci provi, non
riesco a camminare senza tacchi”), certi gesti: risulta che il
mignolo, l’indice e il pollice della mano destra protesi nel segno delle
corna significhino "amo", e quando il protagonista si trova a parlare con
tonto incomprensivo gli bussa con le nocche sulla fronte: “Eilà, c’è
nessuno in casa?” |