Leone dell'anno - Festival di Venezia 2001
da Io Donna (L.M.) |
La storia parte da un fatto di cronaca, finito con una strage familiare. «Non ho fatto ricerche particolari», spiega Cantet,«mi sono basato solo sul ricordo di ciò che m'aveva colpito leggendo i giornali. Mi interessava il rapporto con la menzogna, la capacità di condurre una doppia vita. E volevo che il mio protagonista fosse apparentemente banale, non un mostro. Qualcuno che potesse somigliarci. A tutti è capitato di pensare di cambiar vita. Vincent è fisicamente opaco, ma allo stesso tempo un camaleonte, capace di muoversi in ogni tipo di ambiente. Affascinante, complesso. È tentato dalla precarietà, dall'avventura, lo immagino come io sceneggiatore della propria vita, uno che scrive film noir». Cantet ha scelto di eliminare il vero finale drammatico della storia, facendo rientrare Vincent ranghi dopo essere stato scoperto. Ma non è un happy end: «A me sembra un orrore, un'altra forma di morte, la rinuncia alla libertà che si era conquistato affrancandosi dal lavoro. È evidente nel suo sguardo stravolto nell'ultima scena». |
da Il Giorno (Silvio Danese) |
Di fascino francese, ma come un Godard anni '60 non cubista, bensì analitico e fenomenologico, è il film vincitore del secondo Leone della Mostra di Venezia. Parte da una domanda sul rapporto tra mondo del lavoro e umanesimo nella morsa dell'appiattimento borghese postindustriale: il tempo è una variabile o un contenuto? Avendo perso l'impiego come consulente finanziario, stordito dall'improvvisa deriva quotidiana, Vincent mente alla famiglia e s'inventa un nuovo importante impiego negli uffici ONU di Ginevra. Attraversa il confine ogni settimana, dorme in auto, aiuta il direttore di un hotel nel traffico di marchi contraffatti, s'inventa per caso un raggiro finanziario e riprende il suo ruolo di marito e padre ogni week-end, bugiardo di professione a sostenere una vita che non c'è. L'argomento sociale (disoccupazione, ambizioni di reddito) è meno rilevante dell'umore metafisico che il volto assente del protagonista (Aurélien Recoing) e la glaciale intercambiabilità degli ambienti (case, città, uffici) riescono a trasmettere come fallimento emotivo e intellettuale di un progetto di mondo, che è il nostro. E, arrivati alla fine, il primo piano di Vincent vale il film. |
da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
Per avere diretto con Risorse umane uno dei pochissimi film contemporanei sul lavoro in fabbrica, il francese Laurent Cantet fu salutato come il nuovo Ken Loach. Con A tempo pieno, Leone dell'Anno a Venezia, Cantet torna al mondo del lavoro, ma per una via più esistenziale che politica. Che cosa sono diventati gli individui, si chiede, in una società dove ciascuno sta chiuso nel suo lavoro come in una cella; è etichettato solo in base a quello; se lo perde, diventa nessuno? Vincent, consulente finanziario sulla quarantina, viene licenziato. Anziché dirlo alla moglie s'inventa una nuova occupazione come funzionario ONU a Ginevra; il suo tempo, invece, lo impiega a viaggiare e a spillar soldi agli amici, vantando immaginari investimenti. Sa che prima o poi gli verrà chiesto conto del denaro affidatogli ma continua a dir bugie per assicurare il tenore di vita di sempre a moglie e figli. C'è qualcosa di psicologicamente più profondo, tuttavia, nel suo atteggiamento: malgrado i sensi di colpa Vincent sembra trovare nella truffa quella parte di sé che, nel lavoro regolare, non era mai riuscito a tirar fuori. Centrando uno dei temi-chiave delle società occidentali d'oggi, Cantet suddivide anche l'entourage del suo protagonista tra chi è in deficit cronico di tempo (sua moglie, divisa tra il lavoro, la casa e i bambini) e chi dispone di una quantità di tempo (suo padre), ma non sa che farsene. Realistico, attento ai particolari quotidiani, interpretato da facce autentiche, A tempo pieno è un film più complesso delle apparenze: lo attraversa una disperazione oscura, il rimpianto, più che il senso di rivolta, per il modo in cui abbiamo stravolto le nostre vite cedendo tutto il tempo e le energie al lavoro. E risulta tanto più convincente perché non si sceglie un eroe anarchico, ma un uomo perfettamente normale; però così espressivo, nel suo male di vivere, che le ultime inquadrature sul suo volto restano tatuate nella memoria. |
da Sette (Claudio Carabba) |
Girare a vuoto, inventarsi i giorni, cambiare vita, forse. Con delicata amarezza Laurent Cantet segue in A tempo pieno la strana crisi di Vincent, un manager che perde improvvisamente il suo incarico da alto consulente. Invece di sfogarsi in famiglia, l'uomo finge di avere un altro posto e comincia a percorrere, senza meta e senza scopo, le strade di Francia, scoprendo il fascino sottile di un possibile naufragio. Per niente facile o retorico, il film è teso e aspro, anche grazie alla prova di Aurélien Recoing, strepitoso protagonista. Tutto corre sul filo di un'ironica ambiguità, sino a un finale che sembra lieto ma probabilmente è molto triste. Come la vita, a volte. |
LUX - ottobre 2001
promo: Il tema del lavoro (o meglio della disoccupazione), il dramma di una dignità umana che si barcamena tra la sincerità degli affetti familiari e la menzogna di un'occupazione fittizia, un lieto fine forse più amaro della tragica realtà a cui la rappresentazione cinematografica si ispira. |