Cogliere
la natura del tempo rappresenta, tra le altre, una peculiarità del
cinema. Attraverso l’ineludibile meccanismo di progressivo e
cumulativo accostamento di immagini è possibile offrire una forma imp(ecc)(lac)abile
all’idea cardinale del passaggio, del cambiamento, dell’alterazione
come forza promotrice e istigatrice dell’incidere temporale. Il
cosiddetto “tempo di una vita” possiede, come concetto,
quell’immediatezza per giungere, di getto, alla complessità di un
racconto fuggevole e incompiuto, soggetto alla transitorietà delle
possibilità e all’incertezza di un continuo scambio tra immaginario e
reale.
È proprio quanto accade in
A Simple Life
dove viene onorata con una preziosissima e introvabile grazia, la vita
di Ah Tao, nata a Taishan, in Cina, e realmente esistita. La vita di
una “amah”, una serva, che appena adolescente entra a far parte della
famiglia Leung e per sessant’anni, con la stessa encomiabile e
affettuosa dedizione, se ne prende cura, seguendo ogni faccenda
domestica e vedendo crescere e poi sparire quattro generazioni dei
suoi membri. Nel film Ah Tao è ora al servizio di Roger, l’unico della
famiglia rimasto a Hong Kong, dove lavora come produttore
cinematografico. Tra loro esiste una tacita e consolidata complicità:
basta un semplice gesto, o un accenno nascosto sotto l’apparente
freddezza, per veicolare un palpabile affetto e tutta la riconoscenza
che potrebbe avere un figlio verso la madre. Così quando l’anziana
domestica è costretta da un infarto a farsi ricoverare in ospedale e
abbandonare definitivamente la sua casa, Roger comprende fino in fondo
l’importanza del legame lo unisce a Ah Tao.
Lo sguardo della regista Ann Hui - nata nel 1947 ad Anshan in Cina e,
come la sua protagonista, poi trasferita durante l’infanzia a Hong
Kong - è quanto di più vicino a un osservatore pudico, sensibile e
delicato: gran parte del film si svolge all’interno di una casa di
riposo, con veri ricoverati, in modo da ribadire l’approccio
documentaristico ed esaltare il senso di verità prodotto dalle
immagini. Per tutto il film la sensazione è proprio di assistere ad un
turbamento della riconoscibilità della messa in scena, a un
declassamento della finzione in favore di una candida autorevolezza
dell’umanità che unisce gli individui, e di una commovente e gentile
partecipazione emotiva, lontana da ingerenze retoriche o patetiche da
melodramma.
La centralità dell’uomo e dei sentimenti conferiscono al film della
Hui un’aura innovatrice e autentica: i personaggi acquisiscono una
corporeità fisica naturalistica, divenendo persone, e spogliandosi dei
panni del divo. Così le indimenticabili interpretazioni di Deannie Yip
(meritata Coppa Volpi per la migliore interpretazione) e di Andy Lau
diventano un atto, in un certo senso, dovuto rispetto allo statuto del
loro personaggio. E la compagnia di amici e colleghi di Roger, con
nomi del calibro di Tsui Hark, Anthony Wong, Chapman To, Sammo Hung
che giocano a fare se stessi, non fanno altro che ribadire il profondo
e tenero rispetto nei confronti della vecchia governante. Una donna
costretta a cambiare vita, famiglia, abitudini e obbligata a pensare a
se stessa e a farsi accudire e, perché no, viziare, per una volta,
dopo un’esistenza dedicata ad occuparsi degli altri.
Il pathos va di pari passo all’umorismo, e lo stile limpido e rigoroso
dell’autrice procede senza sbavature dall’inizio alla fine: anche i
personaggi di contorno contribuiscono di volta in volta ad un affresco
umano di rara intensità, come il vecchietto che vuole farsi prestare
dei soldi per un incontro di piacere con una donna. Dalla protagonista
della New wave di Hong Hong non poteva inoltre mancare una sottesa
riflessione proprio sulla sua città di Hong Kong, della deriva
frenetica e confusa intrapresa dai suoi abitanti, e del rapporto
dell’isola col Continente. Ancora una volta mutamenti emblematici del
trasformarsi del tempo. Un tempo che si dipana nella sua essenza
inafferrabile ed eterna: senza l’ausilio di meccanismi costrittivi
propri di una narrazione complessa e frammentata,
A
Simple Life
racconta in maniera lieve e lineare, la necessità di dare una forma
compiuta e preziosa a ciò che non cambierà e non passerà mai.
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