La "notizia" (di apertura) è certamente una ed è "di
parte". Il circolo
The Last
Tycoon, editore di questa rivista, oltre ad essere
l'associazione di cultura cinematografica "principe" in
Padova, non si limita ora ad adoperarsi come gestore di
sala d'essai (il Lux)
ma si cimenta come casa di distribuzione cinematografica
indipendente.
Due i titoli subito immessi nel circuito nazionale:
Mister Universo(9
marzo) e Tanna (4 maggio). Il primo, firmato da Tizza Covi e Rainer
Frimmel, è l'ideale continuazione di
Non
è ancora domani - La pivellina e, partendo
dall'ambito circense, costruisce un toccante road-movie,
intriso di ingenua superstizione, che accompagna la
crisi di Tairo, domatore di leoni, alla ricerca di
sicurezze per il suo futuro e di un prezioso
portafortuna...
A Mister Universo,
Menzione speciale a Locarno, si affianca
Tanna, vincitore della
30a Settimana della Critica a Venezia
e candidato quest'anno all'Oscar come miglior film
straniero. Un mondo lontano (un'isola dell'Oceania), una
conflitto tribale, una storia d'amore "impossibile" che
costringe i due innamorati, Wawa e Dain, ad affrontare
la contrarietà delle famiglie a confrontarsi con l'irrisolubile
conflittualità tra le ragion personali e
sociali. Alla forza del racconto corrisponde quella
delle immagini: i lapilli del vulcano che invadono lo
schermo, l'avvolgente manto verde della giungla... La
"scommessa" cinematografica di Bentley Dean e Martin
Butler (due documentaristi che debuttano nella fiction)
punta a toccare il cuore del pubblico ma anche a
soggiogarne lo sguardo.
Troppo
affollato il panorama delle nuove distribuzioni
indipendenti? Troppo occluso l'imbuto del circuito delle
sale? La risposta passa per l'attenzione e la
disponibilità del pubblico d'essai, per l'aplomb
propositivo e per la tenacia della nuova
Tycoondistribution.
Già
a partire dal nome, quel
Festa anziché
Festival, tornato - così
com’era nelle intenzioni originarie di Walter Veltroni - con la
direzione artistica di Antonio Monda nel 2015, l’evento
cinematografico della capitale vuole essere una celebrazione tout
court del
cinema e dunque, allontanandosi - giustamente, visto il
collocamento ravvicinato con la Mostra di Venezia e il Festival di
Torino - da uno spirito di ricerca
puramente cinefilo, esaltare la mondanità, l’incontro e la
popolarità insiti nello spettacolo come forma di intrattenimento
connaturata della dolce vita romana. E visto il riscontro caloroso e
assai generoso da parte dei cittadini che non hanno mancato di
riempire ogni ordine di posto nelle sale, c’è da credere che la
formula sia effettivamente azzeccata. Secondo le parole del
direttore “non si trattava, né si tratta, di una semplice
differenza lessicale, ma della volontà di celebrare la settima arte
attraverso film, incontri, retrospettive ed eventi, uscendo dallo
schema del concorso, della priorità attribuita al red carpet e
all’esclusiva della prima mondiale. Ogni scelta operata nasce da una
riflessione sul senso profondo di cosa rappresenti il linguaggio
delle immagini in movimento, e su come lo spettatore possa essere
arricchito da questi dieci giorni di celebrazione”.
Ad osservare con attenzione la sostanza di questa Festa però, è
necessario un discreto sforzo per rintracciare il senso formale che
ha partorito questo collage di film, tributi, omaggi, incontri,
retrospettive (a registi: Valerio Zurlini, ad attori: Tom Hanks, a
generi:
America Politics), pre-aperture, sezioni parallele e chi più
ne ha più ne metta. L’idea è probabilmente quella di cercare di
accontentare tutti, ma proprio tutti, ed in tal senso bisogna
riconoscere che, scorrendo il programma, ogni spettatore, per età,
genere, gusti, poteva sicuramente incontrare pane per i suoi denti.
A dimostrazione di quando detto bastava infatti banalmente
percorrere l’Auditorium Parco della Musica (sede centrale del
festival) per incontrare ogni tipo di pubblico, dalle scolaresca
delle scuole elementari, ai pensionati, fino al critico più
esigente.
Una celebrazione di questa portata non può prevedere di conseguenza
ambiti di impavida sperimentazione ma sfruttando la nobile arte del
compromesso, la selezione ufficiale ha portato sugli schermi romani
corpose anteprime hollywoodiane prima della loro uscita in sala (il
vincitore dell’Oscar
Moonlight, Snowden,
Manchester by the
Sea, The Birth of a Nation e Florence) e qualche
autore che non ti aspetteresti come Andrzej Waida, Werner Herzog e
Mia Nishikawa.
Tra il piacere splatter dell’horror coreano Train to Busan di Yeon
Sang-ho, amarissime delusioni come l’omaggio al wuxia in tre
dimensioni Sword Master 3D di Derek Yee, la poetica animazione de
La
tartaruga rossa prodotta da Toshio Suzuki e Isao Takahata per lo
Studio Ghibli ma diretto dal francese Michaël Dudok de Wit, ma non è
nemmeno mancato lo stupore per l’opera inattesa, proveniente da
molto lontano che, senza grande clamore, imprime un segno indelebile
lungo ben oltre la durata del festival.
Goldstone dell’australiano
Ivan Sen ha infatti incentivato ancora di più il senso di sfiducia
verso molto cinema popolare contemporaneo, marcando l’urgenza, mai
sufficientemente ribadita, di cercare ripetutamente altrove per non
perdere l’opportunità di lasciarsi sfuggire alcune voci così
affascinanti.
La
Festa di Roma ha ancora molta strada da percorrere per maturare una
visione del cinema coerente e non solo fastosamente rievocativa.
Alessandro Tognolo
Nulla
è cambiato, nella forma, per fortuna. Il
Torino Film Festival,
tra le polemiche con l'amministrazione, tra i tagli alle spese e
i conflitti con altri festival, conferma la squadra dell'anno
precedente e gli ottimi risultati. Cambia ovviamente il
contenuto, e, di nuovo, c'è n'è per tutti i gusti ed è qui che
il fiuto della direttrice e dei suoi selezionatori si fa
sopraffino ma mai meramente elitario o pressappochista. Per
fortuna.
Strutturato come sempre in maniera labirintica tra le solite
numerose sezioni, necessarie per contenere una “mole” di film di
altrettanti generi, il
TFF 34 rifulge di dirompente cinefilia e
assicura con fermezza di poter recuperare quanto di meglio
circola in giro per il mondo, con uno sguardo al passato e uno
al futuro e una naturale, curiosa inclinazione per la
soggettività più spinta e originale.
Non a caso quindi, ogni percorso preconfigurato da parte dello
spettatore finisce per prendere traiettorie inattese: posti
limitati nelle sale quasi sempre stracolme, file chilometriche,
condizioni atmosferiche impervie e orari impossibili, portano
inevitabilmente a scelte nuove, nuove visioni, sviluppi della
visione che si diramano nella storia del cinema, nella
sperimentazione, nella realtà, nei formati più arditi e perché
no, anche nella grande anteprima di turno.
Mai come quest’anno, l’estremo oriente ha imposto un peso
determinate e decisivo nelle opere presentate nelle diverse
sezioni del festival: non tanto per la quantità, visto che i
film orientali non spiccavano certo per numero, quanto per lo
scarto, a volte abissale, espresso dalla cifra estetica e
narrativa della loro messa in scena.
Dopo l’innegabile Leone d’Oro a Venezia 73 per
The Woman Who Left, il
TFF ha presentato in Italia il precedente
capolavoro di Lav Diaz (la prima mondiale fu a Berlino)
A Lullaby for the Sorrowful Mystery,
otto meravigliose e indelebili ore in cui abbandonarsi nelle
mani del talento del maestro filippino, nelle quali Diaz
racconta l’epopea del connazionale rivoluzionario Andrés
Bonifacio y de Castro. Lo stile inconfondibile del regista è una
volta di più la dimostrazione di come il suo cinema sia la fonte
inesauribile di una forza rivoluzionaria e incantatrice che in
qualche modo stabilisce un limite così marcato da rendere i
film, così per come siamo abituati normalmente a vederli, un po’
più estranei, insipidi e prevedibili.
Ma le anomalie, si sa, non mancano mai e come è ormai abitudine
da diversi anni, il rapporto confidenziale instaurato dal
festival torinese con Sion Sono è la garanzia di ritrovare un
autore oltre ogni prevedibile canone. Spiazzante, immenso,
geniale, Sono è l’essenza stessa del cinema, nella sua
riproducibilità e nella mise en abîme che coinvolge il farsi e
disfarsi dei sui film, dei suoi personaggi, e le numerose
possibilità delle vite che li coinvolgono. Con
Antiporno il
regista nipponico rivisita il Roman Porno, una serie di film di
genere prodotti dalla Nikkatsu negli anni Settanta, e ne esce un
capolavoro assolutamente anarchico e libertario nonché uno dei
suoi film migliori degli ultimi anni.
Anche la giuria del concorso, presieduta da Ed Lachman - artista
e direttore della fotografia per registi come Haynes, Soderbergh,
Altman, Sofia Coppola, Herzog, Wenders, Schlöndorff, Godard - ha
premiato l’unico film dell’estremo oriente del
Concorso internazionale lungometraggi, assegnando i premi come
miglior film e migliore sceneggiatura
del
34° Torino Film Festival all’opera prima
The Donor, del
regista cinese Qiwu Zang. La motivazione ufficiale della giuria
rende pienamente merito alla composizione magnificamente
orchestrata di questo film: “Siamo onorati di assegnare il
premio a un film così meravigliosamente penetrante e così
poetico nella narrazione, nella performance, nella comprensione
del mondo in cui proviamo a vivere. Pensiamo di aver trovato una
nuova voce del cinema cinese che ci arricchirà tutti”.
Da un’opera prima ad un altro nome filippino ormai riconosciuto:
Brillante Mendoza con
Ma' Rosa
ritorna a Manila per inseguire affannosamente la lotta per la
sopravvivenza di una famiglia di disperati. E di disperazione
sempre si parla in
Ta’ang
di Wang Bing, in cui il regista mette in evidenza un fatto
sconosciuto: l’esodo verso la Cina della minoranza etnica
birmana dei Ta’ang. Due differenti visioni della realtà capaci
di forzare l’impalpabilità dello schermo e l’esausta
riproposizione di facili scorciatoie verso il consenso.
Alessandro Tognolo
Èun vero peccato che solo i frequentatori dei
Festival possano vedere ciò che oggi offre la
cinematografia filippina, che vanta autori come
Brillante Mendoza e Lav Diaz , i cui film non trovano purtroppo
un'adeguata distribuzione. Nemmeno il Leone d'oro a Venezia è
finora servito a far circolare il bellissimo lavoro di Diaz
The Woman Who Left.
Gli eccellenti selezionatori del
TFF, che, come sempre, sanno fare delle scelte
capaci di accontentare i gusti più svariati del pubblico, con
offerte di film spesso di ottimo livello, hanno inserito nella
sezione Festa Mobile dell'edizione 2016 due film filippini,
entrambi molto interessanti:
A Lullaby for the Sorrowful Mystery
di Lav Diaz (2016, già vincitore dell'Orso d'argento a Berlino)
e
Ma' Rosa
di Brillante Mendoza (2016, Palma d'oro a Cannes 2016 per la
migliore interpretazione femminile), due film che raccontano e
denunciano la storia e le condizioni attuali di quel paese, pur
con linguaggi molto diversi: l'uno onirico e rarefatto, l'altro
diretto, realistico al massimo.
Cristina Menegolli
Brusca
sterzata della giuria della
Berlinale quest'anno. Venendo meno ad una consolidata
tradizione di "political correctness" e incoraggiamento al cinema
impegnato e progressista (Fuocammare)
regala l'Orso d'oro ad un eccentrico
film ungherese,
On Body and Soul,
non privo di qualità ma estremamente arty, surreale e ingenuo allo
stesso tempo, negandolo al vincitore annunciato della vigilia (anche
in considerazione delle relativa modestia della griglia di partenza)
l'Aki Kaurismaki di
The Other Side of Hope
("solo" premio per la regia).
Ma questa è solo la più grave delle molte incongruenze del palmares;
dal Gran Premio della
giuria al modesto - quasi
documentario - film di Alain Gomes
Félicitéal Premio Alfred Bauer
"per il film che apre nuove prospettive" assegnato a
Pokot di Agnieszka Holland,
regista polacca che è sulla breccia da quasi trent'anni e il cui
film(anche se non brutto) è certamente uno dei più mainstream e
tradizionali della rassegna (ma qui deve aver agito il messaggio
fortemente ecologico-animalista...).
Il peggio però è stato
raggiunto con l'Orso d'argento per il miglior attore a Georg
Friedrich in Helle Nachte, interpretazione (e film)di sconcertante
modestia e ovvieta'. Unica spiegazione,quota dovuta al cinema
tedesco padrone di casa... Azzeccati invece gli ultimi due premi di
consolazione: quello per la migliore sceneggiatura
al l'ottimo A Wonderful Woman del cileno Sebastian Lelio, ancora meglio riuscito
del precedente
Gloria, e quello per il "rilevante contributo artistico" (ci si riferisce al
montaggio) assegnato per
Ana non amour al regista rumeno Carl Peter Netzer, già vincitore to qui a Berlino nel 2012 con
Il caso Kerenes.
Coraggio, il festival ritorna tra un anno...
Giovanni Martini
(A.T.) Mai
come quest’anno, il
Far
East
Film
Festival, giunto al diciannovesimo
anno di vita, ha sperimentato l’implacabile peso del tempo. Ogni
relazione è soggetta a una trasformazione che trascorre di pari
passo con lo svolgersi della ciclicità delle stagioni, nondimeno il
rapporto imprescindibile della direttrice che conduce verso est il
nutrimento visivo di appassionati, curiosi e addetti ai lavori, ha subìto modificazioni (a/e)ffettive, traguardi inattesi,
intermittenze di gusto e passioni insaziabili. Se da una parte lo
spirito fondativo del festival rimane puro e incorruttibile verso
un’idea di cinema - per forza di cose - culturalmente estraneo, il
pubblico si dimostra sempre di più scisso in due: chi fedelmente
riconoscere il valore autentico e unico nel panorama nostrano di una
selezione altrimenti invisibile, e chi ottusamente relega un’intera
area geografica in una manciata di generi oramai riconoscibili oltre
che ammuffiti e dunque preferisce limitarsi al ben più decifrabili e
rassicuranti credenziali che più o meno diffusamente invadono i
nostri schermi.
Il cinema ha il pregio di poter interrogare il tempo e di poter
decostruirlo nelle innumerevoli varianti di senso che lo
contraddistinguono e allo stesso modo il festival del cinema -
soprattutto del cinema più strettamente connesso al favore del
pubblico e del ritorno economico di cui ha bisogno un interno,
mastodontico, settore produttivo per alimentarsi - è il segno di un
processo che dimostra l’andamento del gusto e l’interesse che
conducono le masse a investire il loro tempo al cinema. Per questa
ragione il festival di Udine rappresenta un momento essenziale per
la cultura cinematografica - e di rimando anche verso un’esperienza
culturale più generalmente estesa verso tutti i diversi ambiti della
rappresentazione artistica, sociale e umanistica - tanto da divenire
di anno in anno l’unico luogo realmente tangibile in cui studiare,
godere e aggiornarsi sul mondo verso cui si addentra in maniera
ragionata, diversificata e spettacolare.
>>
da UDINE:
Alessandro Tognolo e Cristina Menegolli
Anche
la notizia di chiusura è "di
parte". La nuova giunta padovana affidata a
Giordani
ha al suo attivo una vittoria che va ben oltre la messa
all'angolo del tracotante avversario del centro destra (Bitonci
era ridotto ormai ad una macchietta, ma il suo aplomb sulla
cittadinanza lo ha portato comunque a raggiungere un 48,16%
nel ballottaggio). L'affermazione delle due liste
targate Lorenzoni
(Coalizione
Civica e lista Lorenzoni sindaco)
ha assunto un risultato politico che va oltre l'area patavina:
concetti come partecipazione e inclusione hanno saputo
scardinare un'omologazione culturale in cui la sinistra
dell'area PD sembrava irrisolubilmente impantanata.
L'entusiasmo
contagioso di Arturo
(curiosa la concomitanza con il gioco elettorale teletrasmesso
da Gazebo) e i nomi nuovi che l'hanno circondato
(brillano a giochi fatti le "quote rosa" di
Chiara Gallani,
Francesca Benciolini,
Marta Nalin) hanno fatto passare il guado ad una
cittadinanza che alla fina ha fatto dell'arancione
il colore del suo futuro.