Il progressivo riconoscimento delle peculiarità del
FEFF da parte di
coloro che tenacemente lo popolano da quasi due decenni, va di pari
passi con un percettibile abbandono da parte di molti esponenti dei
media tradizionali, in special modo quelli di più ampia diffusione.
Le ragioni coinvolgono certamente molteplici argomentazioni che
richiederebbero un confronto più approfondito, di sicuro però la
stampa ha bisogno di sopravvivere e di vendere (nell’accezione più
ampia che va dall’acquisto diretto, agli ascolti, fino ai click) ed
è possibile che appunto le spettatore non invochi a gran voce un
interesse quantomeno sufficiente. Di dubbia moralità è stata poi la
mossa inattesa di spostare il Bif&st di Bari nelle stesse identiche
date dell’evento friulano: il film festival di Bari, diretto da
felice Laudadio, dal 2009 un avamposto del cinema italiano
capitolino e di tutto il giornalismo di settore., aveva annunciato
un ricollocamento delle sue date da inizio aprile a fine maggio, per
poi decidere senza alcuna solidarietà, e con evidente noncuranza, di
tenersi proprio in concomitanza del Far East.
La chiusura che il nostro paese riserva ad un festival che non
promuove il cinema italiano va di pari passo con la cronaca e il
pensiero diffuso riguardo agli stranieri che affollano i nostri
porti. Per fortuna la tenacia degli organizzatori permette di
mostrare all’estero - là dove questo evento è (ri)conosciuto per il
valore che gli è proprio - solo l’evidenza qualitativa delle voci
fuori dal coro, visionarie forse, ma per questo degne della stima
più profonda.
Il tempo dunque ha intessuto un tramaglio imprevisto a Udine: il
fotogramma scelto come immagine di copertina per il catalogo di
questa edizione era lì proprio a suggerire questo, oltre che ricordare di non perdere il toccante film da cui è tratto, il taiwanese
At Café 6, cristallizza due adolescenti seduti sule
poltroncine di una sala cinematografica, di fronte ad uno schermo
illuminato da immagini di cui non sappiamo la natura ma delle quali
ne vediamo l’effetto attraverso l’espressione sorridente di lui e
quella spaventata, con le mani davanti alla bocca, di lei.
Un’immagine che si prolunga e diviene l’istante della durata della
sequenza che proprio noi, che stiamo osservando loro, determiniamo
con la nostra immaginazione. At Café 6 del romanziere e regista Neal
Wu rappresenta infatti un’amarissima e disillusa constatazione
sull’effetto del tempo.
E - in continuo dialogo tra dentro e fuori dallo schermo - le
conseguenze del tempo rischiavano di far perdere traccia per sempre
dell’indimenticabile
Made in Hong Kong, film indipendente e
autenticamente hongkonghese girato giusto vent’anni fa da Fruit Chan
con dei resti di pellicola, tornato ad un nuovo splendore grazie al
restauro in 4K commissionato dal
FEFF e realizzato dal laboratorio
bolognese L’Immagine Ritrovata.
Il 1997 fu infatti un anno cruciale per Hong Kong: il 1 luglio la città
passava sotto la sovranità cinese e negli ultimi vent’anni anche il
cinema ha dovuto adeguarsi agli inevitabili cambiamenti di questo
passaggio.
La sezione
Creative Visions:
Hong Kong Cinema 1997-2017
riflette la creatività ininterrotta dei cineasti di Hong Kong e
l’evoluzione delle tendenze affermatesi con l’inebriante mix tra le
ambizioni artistiche della New Wave e i film d’azione di genere
degli anni Ottanta. Si è così potuti passare da
A Simple Life di Ann
Hui – un film radicato nel cinema cantonese di conflitto e
compassione domestica, che cattura al suo centro l’umanità
essenziale di una società spesso caratterizzata come materialistica
- a After This Our Exile di Patrick Tam, un film in cui è possibile
cogliere un’espressione di fede e di spiritualità che i capricci del
mondo esterno non riescono a offuscare. Dal sublime tocco del
maestro Wong Kar-Wai con l’ultimo The Grandmaster, in cui stili
diversi di arti marziali si sovrappongono, come in una babele
linguistica – le parole diventano pugni, le frasi diventano schemi
-, le diverse strutture sintattiche delle arti marziali sono prese a
calci, lanciate in aria, comprese e incomprese e il desiderio è una
conseguenza di ciò che è “perduto nella traduzione”, ad un altro
maestro di genere qual è Johnnie To e l’inconfondibile atmosfera
noir del suo The Mission.
Una carriera consolidata nel tempo è quella di Feng Xiaogang,
etichettato da molti come lo “Spielberg cinese”, premiato quest’anno
dal Festival con il Gelso d’Oro alla carriera in occasione della
presentazione del bellissimo
I Am Not Madame Bovary, splendido
ritratto di un personaggio femminile non riconciliato (la splendida
Fan BingBing) che lotta per la sua dignità fino alla fine. Il
percorso di Xiaogang, molto amato in patria e affezionato al
pubblico del FEFF - basti pensare a Be There Or Be Square (1999),
A
World Without Thieves (2004), The Banquet (2006),
Assembly (2007),
If You Are the One (2008),
Aftershock (2010),
Personal Tailor
(2013), tutti presentati a Udine - “è stato, fino a questo momento,
soprattutto quello di un artista del cinema commerciale che ha
voluto e saputo fare un cinema fuori dagli schemi pur nel rispetto
di generi e filoni, mantenendosi fuori dal gregge anche quando (dopo
un breve inizio come “indipendente”) ha scelto di aderire ai modi di
produzione del cinema dominante. Nessun altro regista cinese
contemporaneo ha saputo realizzare film tanto autenticamente
popolari che, al tempo stesso, rivelano in maniera sorprendente
un’impronta decisamente singolare. La sua influenza sul cinema
cinese è importante – e non solo sulle nuove forme della commedia in
tutte le sue declinazioni, sul film d’azione e sul film
spettacolare. L’opera di Feng Xiaogang risulta di difficile
categorizzazione, talmente può oscillare dall’una all’altra delle
contrapposte classificazioni convenzionali: film popolare/film
d’autore; commedia/ melodramma; mitologia del cinema
hollywoodiano/storie cinesi”.
Infine, il podio di quest’anno segna un importante cambiamento di
rotta: il pubblico del Festival (a Udine non c’è giuria ma solo il
verdetto popolare) dopo tanti anni di dominio incontrastato della
Korea, vede incontrastato il Giappone sul gradino più alto. Come
raramente accade, sia l’Audience Award che il Black Dragon Audience Award, hanno decretato l’intrinseco valore della dolce e surreale
dramedy di Ogigami Naoko,
Close-Knit, capace di riunire i gusti e
condividere le emozioni a colpi di deliziosissimi bento.
In contrasto con ogni furore conservativo, il
Far East Festival
rimane ancora uno dei luoghi migliori in cui perdersi.
Alessandro Tognolo |