Nel
conciso e sobrio discorso pronunciato nel ricevere il meritato Leone
d'oro Lav Diaz ha dichiarato di dedicare il film e il premio a tutto
il popolo filippino “per la sua lotta e alla lotta di tutta
l'umanità”. A chi conosce altre opere di questo autore una tale dedica
non può apparire come una formula di circostanza, in quanto contiene
l'orizzonte entro il quale si muovono tutti i suoi film, che in un
modo o nell'altro finiscono sempre per raccontare la storia di un
popolo, che per quattro secoli è passato da una colonizzazione a
un'altra, da quella spagnola a quella statunitense, di cui ancor oggi
porta le conseguenze, con tutte le difficoltà che la conquista della
libertà comporta. E alla decolonizzazione alludono le voci degli
speaker radiofonici che accompagnano i titoli di testa, collocando la
vicenda in un preciso momento storico: il 1997, anno del ritiro
britannico da Hong Kong, anno in cui nelle Filippine si moltiplicavano
i sanguinosi sequestri di persona, oltre che anno della morte di Lady
Diana e di madre Teresa di Calcutta.
La difficile conquista della libertà si può paragonare all'uscita da
una prigione, allo spaesamento e alla ricerca dolorosa della propria
identità, che questa comporta.
L'impianto è quello di un romanzo ottocentesco e in effetti Diaz
dichiara di essersi ispirato ad un racconto di Tolstoj Dio vede quasi
tutto, ma poi aspetta, ed effettivamente
Ang Babaeng Humayo è forse
l'unico film di Diaz, in cui il racconto mantiene una sua compattezza
e segue un percorso dai contorni nitidi e precisi. Il che non
significa che egli rinunci alle sue dilatazioni temporali, alle sue
deviazioni dalla traccia, fatte di piani fissi, di profondità di
campo, ma sembra che qui non lo faccia mai per raggiungere la
sospensione, cioè quel momento in cui il tempo del racconto si
dissolve nella purezza della visione, si smarrisce in un punto
imprecisato della giungla (urbana in questo caso). Qui, al contrario
sembra lo faccia per scavare, per tendere all'approfondimento, per
dare concretezza reale a quelle figure ideali, che sempre abitano il
suo cinema, a quelle idee, che si agitano, sotto forma di uomini, nel
teatro della Storia. Qui le idee (la solitudine, la povertà, i
soprusi, la vendetta) sono incarnate in persone, di cui possiamo
cogliere le intenzioni, i dubbi, i sentimenti, il perchè delle azioni.
Persone che parlano quella che è stata adottata come lingua ufficiale,
il tagalog, infarcita di espressioni inglesi e spagnole, persone che
si chiamano Horacia, Pedra, Rodrigo, Hollanda, nomi stranieri,
spagnoli, come del resto è quello del loro paese, scelto da un
esploratore in onore a Filippo II di Spagna. |
Cristina Menegolli - ottobre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41 |