La Tutto quello che so sulla divulgazione […] l’ho appreso
un pomeriggio del 1965 (o era il ‘64? o il ‘66?). Si era comunque
nel pieno degli anni del boom economico. Si vendeva e si consumava
di tutto. Anche i libri: a peso, dicevano i maligni ricordando
l’esempio dell’Ulisse di Joyce, che, appena tradotto (1960), era
stato venduto in ottantamila copie e comprato da ottantamila
persone che poi capirono di non avere nessuna voglia, o interesse,
o piacere, a leggerlo. C’erano già allora i dibattiti culturali,
le presentazioni, le tavole rotonde, gli incontri. C’era a Roma la
libreria Einaudi, a via Veneto, che aveva strutturato ed
attrezzato allo scopo una saletta sotterranea. Si malignava che a
riempire quell’elegante bunker, in occasione della settimanale
presentazione di libri,fossero quasi esclusivamente signore con la
veletta. […] Fu in occasione di una di quelle presentazioni
di poesia che Italo Calvino, nient’affatto impressionato dalla
presenza di tante signore, spiegò « poesia è l’arte di far
entrare il mare in un bicchiere». La poesia: ma la
divulgazione? A distanza di quindici e più anni, molte cose sono
mutate; ma quella definizione rimane calzante. E vale per la
divulgazione, oltre che per la poesia. […]
Il pubblico (di oggi ndr) tanto più giovane, più numeroso,
più interessato di quello di vent’anni fa, continua a vedere la
cultura attraverso un velo. Le fattezze di Nietzsche sfumano in
quelle di Lacan, che rassomiglia stranamente ad Elias Canetti, che
deve essere imparentato in qualche modo a Dostoevskij, o cugino di
Joseph Roth. Si confondono fra di loro anche i signori che stanno
dietro il tavolo (rotondo). Colpa loro, cioè nostra: dovremmo
diradare quel velo, e invece lo rendiamo più torbido. Vero è che
il compito è gravoso: si tratta di soddisfare la fame di
informazione culturale di un pubblico giovane, diffidente,
impaziente. Questo pubblico, in tanto, c’è. Chi non vuole
accettarlo, o lo prende in giro, si strugge ancora di segreta
nostalgia per quelle signore - con o senza veletta - di tanti anni
fa. Questo pubblico c’è. Ma troppo spesso esce deluso e irritato
dai nostri dibattiti, o convegni, o tavole rotonde. Evidentemente
non facciamo abbastanza bene il nostro lavoro di mediatori, di
divulgatori. Non siamo all’altezza del nostro compito. Che
consiste, per riprendere Calvino, nel far entra re il mare in un
bicchiere.
Prendi quel «mare magnum» che è Freud e fallo entrare in un
articolo. Prendi quel mare agitato che è il problema del
«politico» e fallo entrare in una trasmissione televisiva di
un’ora, o in un intervento alla radio di dieci minuti (di più non
si può, la gente si stanca). Prendi quell’oceano tempestoso che è
la rivoluzione francese, e falla entrare in un libro - leggibile
per favore - di duecentocinquanta pagine. Qualche volta qualcuno
ci è riuscito. Quel tale, per esempio, che per spiegare la
«differenza» fra Mozart e Bach ebbe a dire: quando gli angeli
giocano fra di loro, suonano Mozart; quando parlano con Dio,
suonano Bach. Divulgazione perfetta: perché dice qualcosa di
giusto, di essenziale su Mozart, su Bach e mette voglia di saper
(di sentire) di più. Sono le due condizioni che una divulgazione
deve soddisfare per essere seria. Si tratta, dicevamo, di far
entrare l’acqua del mare in un bicchiere.
Ma, primo: quell’acqua dev’essere veramente acqua di mare, non
annacquata, non inquinata. La divulgazione non è sciatteria, non è
approssimazione. Al contrario. Vanno di moda le biografie. Ma
molte delle di personaggi storici che arrivano oggi sul mercato
rivelano un retroterra culturale povero, un’informazione di
seconda mano, un aggiorna mento bibliografico e problematico
approssimativo. Anche una biografia di Garibaldi di non può essere
scritta alla garibaldina. Semmai, deve essere scritta alla
«Cavour»: con un lucido progetto in testa, una strategia
complessiva, una consapevolezza diplomatica (che cos’è la
diplomatica? È «lo studio dei documenti di interesse storico e
erudito, allo scopo di accertarne l’autenticità la provenienza»,
Devoto e Oli. Dizionario della lingua italiana).
In più la divulgazione dev’essere leggibile. Fa da ostacolo il
fatto che i «professori» (gli accademici in generale) «non sanno
scrivere». È il cruccio dei direttori di giornale, è la lamentela
assidua degli editori. I motivi sono risaputi e mille volte
spiegati. «Non sanno scrivere» perché scrivono pensando al collega
che li leggerà con cipiglio fiero; perché hanno un concetto
spagnolesco della dignità culturale; perché maleducati fin dalla
più tenera età (come tutti noi, del resto) da una scuola che non
ha imparato — e quindi non può insegnare — che non si apprende a
scrivere facendo i «temi» ma facendo i «riassunti».
Ma perdurando - ancora chissà per quanto tempo - questa
situazione, non si vede perché uno storico (o un economista, o uno
scienziato) non debba potersi associare ad un buon divulgatore per
sciogliere in un linguaggio onesto e comprensibile – le cose che
sa e che vorrebbe far sapere agli altri.
Versare il mare in un bicchiere, si diceva. Ma, secondo il
bicchiere pulito, limpido. Trasparente. In che senso? Nel senso in
cui lo è il bicchiere in cui si «versa» la poesia. I seguaci
appassionati di Hiddeger mi hanno convinto che la poesia non vale
tanto per quello che dice, quanto per quello che non dice e di cui
fa intravedere l’incombente presenza. Dev’essere ogni poesia, come
la siepe dell’«Infinito» leopardiano che, certo, da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Però, sedendo e mirando
interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi e
profondissima quiete io (come voi) nel pensier mi fingo, ecc.
Una divulgazione seria deve far capire che in quel bicchiere c’è
dell’acqua di mare, ma non c’è il mare. Siamo seri: è davvero
possibile che uno scienziato mi faccia capire tutto - in un libro
di duecentocinquanta pagine, o in una trasmissione televisiva di
trenta minuti - sulla teoria della relatività? Se è così semplice,
com’è che egli ha impiegato tanti anni di studio per venirne a
capo, per padroneggiarla? Quello scienziato – se è bravo e bene
assistito da un bravo «divulgatore» - può farmi capire delle cose
essenziali. Ma soprattutto può (anzi deve) farmi intravedere anche
le tantissime altre cose che ci sono, e che varrebbe la pena di
capire.
Attraverso il bicchiere si deve vedere il mare, e averne voglia.
Una divulgazione seria non ci dà l’illusione che si possa nuotare
in due dita di liquido salato Non ci fa correre il pericolo
grottesco di affogare in un bicchier d’acqua (sia pure d’acqua di
mare). |