Nel suo esordio alla regia,i Yutaka Yamazaki - il settantenne direttore
della fotografia di Hirokazu Kore-eda da After Life (1998) in
poi - pone il centro della narrazione all’interno della vita di
Hiroko, una vita ordinaria e regolare, divisa tra la casa e il
lavoro, ma con un segreto di cui nessuno è al corrente: vive in
compagnia di un busto maschile gonfiabile che tratta come un vero
e proprio fidanzato. “Ho avuto l’idea per Torso circa
trentacinque anni fa, quando ho visto un busto maschile in un
pornoshop a Copenhagen, che non aveva volto, braccia o gambe, ma
solamente un fallo dilattice. Mi sono chiesto allora se un busto
potrebbe essere la parte essenziale che una donna possa desiderare
di un uomo, e
ho iniziato a pensare che un giorno mi sarebbe piaciuto girare un
film su una donna che si innamora di un busto e non di un vero
uomo”. Torso
è un film intimo e trattenuto, in cui i sentimenti misantropici
della protagonista non costituiscono il fulcro del dramma, ma
arrivano a rappresentare, in una prospettiva assai differente, la
necessità di amare, e la capacità di trovare un equilibrio lontano
dalle regole e dalle modalità precostituite dalla società. Per
comunicare questo Yamazaki non formula alcun derivato estetico
dell’immobilità, o della lontananza, o dell’emarginazione, ma
conferisce una sensibile morbidezza a un mondo limitato e privo i
trasmissioni umane.
Alessandro Tognolo |
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Di una stessa alienante perdita di comunicazione tratta
Adas
(Transmission) dell’ungherese Roland Vranik. Quando tutti
gli schermi della città improvvisamente smettono di funzionare, un
senso di vuoto irrompe nelle abitazioni, dove le persone rimangono
a fissare gli schermi bui. “In che modo questo singolare e
spaventoso avvenimento colpisce l’individuo? Di quali tecnologie
abbiamo bisogno per sopravvivere? Sono in grado di capire cosa sta
succedendo loro?”. L’interrogativo è proprio il meccanismo
cardinale al quale fa riferimento il film di Vranik.
I personaggi
appaiono svuotati di ogni personalità, muti e indolenti, simili a
zombie in cerca di un contatto letale con forme di vita
(apparente), e riverberi essi stessi della riproduzione finzionale
dello spettacolo che governa le loro esistenze. Anche la
scenografia non media alcuna tangibile realtà, e anzi accentua la
disper(s)(az)ione della dimensione gruppale in cui si ritrovano
coinvolti inevitabilmente gli individui. La cittadina che dà sul
mare infatti, segue linee architettoniche e formali spigolose e
minimaliste, sembra assiderata nella fissità di un riquadro
fotografico, e la profondità di campo è quasi sempre affidata a
tonalità univoche e polarizzate che in qualche modo rimandano a un
certo astrattismo monocromatico. Non c’è né speranza né rimedio a
questa solitudine della quale l’uomo stesso ne è l’artefice.
(A.T.)
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Guy and Madeline on a Park Bench
Damien Chazelle |
Di tutt’altro genere e vigore
l' esordio nel lungometraggio del giovane batterista jazz (classe
1985) Damien Chazelle. Ed è proprio l’attitudine al jazz e
all’improvvisazione a caratterizzare questo film dal ritmo
sincopato e dal sapore vintage: “ Volevo fare un film su persone
che sanno comunicare solo attraverso la musica. Ho cercato di
trattare il film come fosse un documentario, e secondo me non è
poi così lontano da quello che sono i musical, sicuramente
artificiosi ma molto attenti nel documentare una performance
musicale”. Storie d’amore tra Boston e New York, in cui la
solitudine emerge mestamente dalla moltitudine della folla e
dall’imprevedibilità dei sentimenti e della passione, il film è un
chiaro omaggio alla libertà dello stile espressivo di
John Cassavetes,
rivisto e innestato all’interno di una tradizione musical(e),
anch’essa sottoposta ad una revisione indipendente e istintiva.
Quasi scontato, ma non per questo privo del suo fascino, il bianco
e nero polveroso e impreciso ottenuto a partire dal girato in
video. I primi piani dei protagonisti rivelano così un’aderenza
naturalistica degli stati d’animo senza la necessità di parole. È
come se, per Chazelle, il verbo fosse il suono.
(A.T.) |
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Esordio alla regia di un lungometraggio di finzione anche quello
di Rune Denstad Langlo con un film di produzione e
ambientazione norvegese, giustamente definito dall’autore “an
antidepressive off-road movie”. E la storia è in effetti quella di
un viaggio verso l’estremo nord del paese, condotto attraverso
distese infinite di neve con motoslitta e sci dal protagonista
depresso che scopre di avere un figlio. L’assoluta qualità di
Nord
è l’ironia con la quale gestisce il dramma che, di fatto, si
stempera in toni da commedia senza però perdere mai di spessore, e
anzi, acquisendo una personale tonalità umanistica. In Nord, la
natura stessa è la raffigurazione della solitudine, artefice
dell’isolamento in cui sono immersi tutti i personaggi, i quali a
causa delle condizioni ambientali si ritrovano impossibilitati, e
disabituati, a intrattenere forme di contatto umano. Il percorso
del protagonista è la forzatura di quest’obbligo naturale, e la
scelta ardita che porterà alla scoperta e al cambiamento.
La regia
di Langlo è finemente leggera, abile prima di tutto a dosare gli
elementi formali e moderare la carica recitativa. Procede per
contrasti, diegetici (sensoriali: temperatura, vista, tatto;
emotivi) ed extradiegetici (musica country) e, a sancire la
sobrietà della scrittura della sceneggiatura, un finale perfetto
senza alcuna pedante e ridondante facondia.(A.T.) |
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Van Diemen’s Land
anathan Auf Der Heide |
Solitudine assassina, della sopravvivenza e della disperazione
nella vicenda, realmente accaduta, narrata
dall’australiano Janathan Auf Der Heide. Un film cupo, inquietante e
dai risvolti horror, ambientato nel 1822, nella terra
corrispondente all’attuale Tasmania, colonia penale britannica,
dove otto prigionieri riescono a sfuggire al controllo delle
guardie e si ritrovano immersi in una natura sconosciuta e
inesplorata. Un film tutto sommato meccanico e privo di una
qualche originalità se non per l’interesse primordiale verso la
violenza, quella violenza connaturata nell’essere umano, come
reazione al pericolo della morte.
(A.T.) |
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Dal Canada
un altro lungometraggio d’esordio, quello di Sherry White.
Crackie
è la storia degli sgretolamenti emotivi di tre generazioni di donne, nonna-madre-figlia, e i rapporti che (non) le legano: “alla
nascita siamo tutti legati alle nostre madri. Per molti di noi,
questo legame continua a esistere fino a quando non raggiungiamo
l’indipendenza. Ma per altri bambini il legame è reciso troppo
presto. Bruscamente. E il bambino continua a cercarlo per anni.
Alcune persone giungono alla conclusione che se non riesci a
trovare una madre puoi sempre essere una madre. Ma, non puoi
essere davvero una madre fino a quando non smetti di essere un
bambino”. La White ha una sensibilità indipendente e non si
preoccupa mai di esprimere dettagli morali per riuscire a
compensare l’assoluto sconforto del destino riservato ai suoi
personaggi. La regia diviene l’attuazione di un processo mimetico
totalizzante verso la definizione di un realismo senza aberrazioni
estetiche di patina o ti cronaca: lo svolgersi interpretativo
della recitazione rimane sempre il centro della visione,
assecondato perentoriamente nei tempi, nelle reazioni,
nell’inammissibilità di una qualche ragione, e l’incedere del
dramma non offre alcuna pausa di modulazione, quasi ad azzerare i
limiti e i doveri della costruzione narrativa e offrire un
frammento di vita puro e violento, all’interno di un percorso di
formazione di cui si può solamente cercare di intuire uno dei
possibili esiti. Film interamente declinato al femminile, ma non
per questo riconducibile a tonalità pastello o intensità smorzate,
e anzi dall’audacia descrittiva e dalla sensibile spudoratezza
assai difficilmente rintracciabili in gran parte del cinema
presente comunemente nelle sale. Crackie è il termine utilizzato
per indicare il bastardino a cui si lega ossessivamente la giovane
protagonista. Elemento alterante, in grado di far emergere ancor
di più gli equilibri corrotti nelle relazioni umane, figlio
dell’ambiente malsano e degradato che l’ha partorito, e destinato
alla tragica follia condotta dall’incomunicabilità emotiva di cui
si circonda un’umanità ai limiti del collasso.
(A.T.) |
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