maggio-giugno
luglio 2006

trimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 17
Reg.1757 (PD 20/08/01)

     L'ultimo lavoro di Leonardo Rampazzi è il volume Locus Fictus (casa editrice - Il Prato) in cui "viene analizzata l’opera d’arte pittorica nella sua molteplicità di aspetti, rivelando cosa si nasconde dietro la semplice osservazione di un quadro e, con esempi e riferimenti mirati, costruendo un percorso fatto di constatazioni visive oggettive e di sensazioni soggettive che ogni individuo compie, inconsciamente, ponendosi a confronto con un dipinto. Il quadro viene visto come scena, come teatro in cui ogni spettatore dell’opera occupa un posto privilegiato…"

Introduzione

    A partire dall’Umanesimo, la scena e la scenografia costituiscono per lungo tempo un terreno favorevole alle esibizioni della prospettiva: non diversamente dalla pittura. “Nelle sue applicazioni sceniche, la prospettiva delimita uno spazio in cui il punto di vista viene stabilito nella loggia del principe e il punto di fuga, diametralmente opposto, al centro della pittura del fondale.” Questo spazio costituisce già di per sé un luogo teatrale, che è lo stesso luogo ‘teatrale’ istituito dalle relazioni tra la pittura prospettica e i suoi osservatori. Se nel luogo che si specifica come ‘teatro di corte’ l’unico punto di osservazione ‘legittimo’ è appunto quello situato nella loggia del principe (tanto che agli altri, i cortigiani, è in fondo concesso sol tanto di assistere allo spettacolo del pieno godimento principesco della scena, privilegio dal quale sono di fatto esclusi), nel ‘teatro’ della pittura prospettica la ‘loggia del principe’ è accessibile a chiunque, vale a dire che in esso il punto di vista, di volta in volta vacante, conferisce a chi lo occupa almeno la sovranità di uno sguardo ‘legittimo’. Questa sovranità dell’osservatore allorché occupa e detiene il punto di vista, è finalmente resa esplicita da un quadro come Las Meninas, dove egli viene identificato con il Re e la Regina, ciò che spiega perché tanti occhi di cortigiani, compresi quelli del pittore di corte, gli si stiano rivolgendo direttamente. Ci viene svelato, tra l’altro, il segreto di questo ‘teatro’, non tanto ‘di corte’, quanto identificabile con la ‘corte’ stessa: la reversibilità e la specularità di spettatore e spettacolo.
È a partire da queste considerazioni che sono stato indotto a rileggere certe opere di pittura, di cui non voglio qui avanzare giudizi sulla peculiare qualità pittorica, dei cui autori nell’ambito della storia dell’arte non mi compete qui di parlare, ma che mi colpiscono nella loro qualità insieme di finzione e di progetto di luoghi e di tempi e che mi impongono, lo ripeto, un’esperienza analoga a quella teatrale. Sono stato innanzitutto attirato da un aspetto squisitamente professionale nell’operazione che vede i pittori, autori ditali opere, intenti ad allestire scene che, nel fingere aspetti del mondo reale, li compongono in modo da illudere il nostro sguardo di essere il sovrano - ma direi anche l’artefice, il dio creatore - di un mondo analogo e sostitu tivo: il quale cioè, nel rappresentarlo si sostituisce al mondo reale punto per punto, costituendosi di nuovo e analogamente di cieli, di nuvole, di acque, di alberi, di edifici, di stanze, di oggetti, di animali, di figure umane..., conservando tuttavia la pro pria autonoma esistenza alla fissità nella collocazione del proprio sovrano o creatore, lo sguardo.
Considero degno di nota, prima di tutto, il fatto che il pittore, componendo la scena, componga allo stesso tempo un mondo, particolare e particolareggiato fra tutti quelli rappresentativi del mondo reale, avendo dovuto compiere una selezione ‘d’individui’ delegati a rappresentare i generi, le specie, le categorie che lo articolano; poi che lo presenti in modo da denunciare di dove proviene lo sguardo che ne è, in un certo senso, il ‘motore immobile’, rimandando cioè a una postazione inamovibile, centro di emanazione e insieme obiettivo di tutte le operazioni che lo costituiscono (pensiamo ancora alla loggia del principe); infine, di conseguenza, che ce lo presenti come una soggettiva del suo immobile ‘creatore’, rivelando che la finzione di oggettività è tributaria del particolare punto dello spazio in cui, per l’occasione, egli è andato ad immobilizzarsi. In rapporto a quest’ultima considerazione, si può sostenere che quella soggettiva ci rende visibile soltanto un frammento di un mondo che tuttavia possiamo immaginare esteso all’infinito, in un infinito fuori-campo.
Perché non si tratta qui genericamente di pittura o di scena teatrale ma più esattamente di quadro (il quadro prospettico), sia esso delimitato da una cornice, da un boccascena, o da un formato standard. Il quadro diviene, osserva appunto Panofsky, “frammento della realtà, nella misura e nel senso che lo spazio immaginato procede ormai in tutte le direzioni oltre quello raffigurato; e così proprio la finitezza del quadro fa avvertire l’infinità e la continuità dello spazio.”
Ciò è proprio di ogni opera della pittura prospettica in quanto quadro nel dispositivo sopra descritto. È qualcosa di legato al funzionamento della prospettiva e che è passato anche all’azione in movimento (cinematografica e televisiva) nella misura in cui questa è vincolata al formato fisso di ogni inquadratura e alla posizione (solo una alla volta) via via assunta dalla macchina da ripresa.

Leonardo Rampazzi      

 

     Sia alla prima lettura sia in quelle successive, Locus fictus ha continuato ad evocarmi L’arca russa (il film di Sokurof), a mano a mano ho cominciato a mettere a fuoco che anche nel libro un visitatore invisibile attraversa in soggettiva vani e porte, soglie e pareti senza stacchi, come in un lungo piano/sequenza. Un visitatore invisibile che ci accompagna con prodigiosi movimenti di macchina nelle stanze (non solo metaforiche) della pittura, attraverso schermi e cornici, finestre e specchi, avanti ed indietro nel tempo, ad incrociare scene, sguardi, fasci di luce ed ombre, allungate per meglio evocare il fuori campo, quel rovescio della medaglia che continua ad interrogarci.
Io credo che la vocazione sottesa a questo testo o, se volete, il talento ulteriore che ne emerge, abbia a che fare con la scrittura cinematografica, o meglio, col trattamento, quella scrittura del film appena precedente la sceneggiatura vera e propria. In fondo, cos’è per un film il trattamento e/o la sceneggiatura se non la rappresentazione (in questo caso linguistica) che precede la rappresentazione visiva? Un modello verbale che simula e prefigura quello visivo, l’allestimento di una rappresentazione che precede la vera rappresentazione. Giusto per utilizzare concetti e terminologie cari a Leonardo Rampazzi.
A lui, però, non interessa immaginare e costruire nuove rappresentazioni, non interessa inventare storie, lui è interessato a re-immaginare, a ri-mettere in scena rappresentazioni già esistenti, a lui piace trattare e rimontare rappresentazioni ampiamente frequentate e codificate, per schiuderle a nuove letture, per rivelarne un supplemento di senso. Il tutto con una scrittura che sembra mutuata più dalle frequentazioni cinematografiche che dai testi di storia dell’arte. Dico questo non perché nel libro troverete citazioni di film, ma perché qui le opere pittoriche sono raccolte e messe in sequenza, attraversate e narrate con tecnica cinematografica.
A cavallo di un dolly passerete attraverso le finestre di Magritte, per imbattervi nella Fresh Widow di Duchamp, dall’alto vi calerete nelle Room di Hopper per passare poi a curiosare, rasoterra, nell’Interno con donna di De Witte e fare un po’ capolino nello specchio che Vermeer ha messo di fronte alla donna de La collana di perle.
In questo libro Leonardo Rampazzi crea sull’immagine fissa della pittura una specie di trattamento in post-produzione, potrebbe sembrare una contraddizione in termini, ma solo un ossimoro può restituirne la peculiarità: creare un movimento nel fermo immagine della pittura. Movimento che non è indotto, però, dallo scorrere delle immagini: quadri, incisioni ed affreschi sono, in questo testo, animati dal movimento del pensiero, un pensiero appassionato (prima ancora che cristallino), che in certi passaggi sembra abitare fisicamente gli spazi osservati, gli schermi interpretati.
Non vi accorgerete che state semplicemente leggendo della Fanciulla che dorme di Vermeer, e in punta di piedi, non senza suspence, avrete già varcato la soglia; con occhio indiscreto, stando attenti a non sbattere contro le suppellettili che ingombrano il proscenio, state cercando di vedere cosa c’è dietro nell’altra stanza, per scoprire  “ciò che viene celato e sottratto allo sguardo, da quello stesso che si fa avanti per rendersi visibile” [...] “realizzando quello stravolgimento dell’aspetto familiare delle cose (delle opere nella fattispecie) nello stesso momento in cui, esplicitamente, gli si richiede di farcele riconoscere”.
Dopo aver letto questo libro, provate a pensare cosa sarebbe una mostra costruita con un progetto simile, provate a sognare un museo o meglio dei musei (magari anche solo virtuali) in cui la sovrabbondanza di materiali, l’accumulo di rappresentazioni, spesso pletoriche, venga sfrondata ed offerta in sequenze autosignificative, come collane di perle tenute insieme dal filo di un pensiero lucido, appassionato ed appassionante come quello di Leonardo Rampazzi...

Antonio De Pascale (presentazione del volume al Liceo Modigliani - 2 novembre 2005)