gennaio-febbraio-marzo 2005

bimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 12
Reg.1757 (PD 20/08/01)

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Lo scorso Natale siamo stati in
            Israele e Palestina
con un viaggio organizzato da Al-Quds, associazione di cultura Italo-Palestinese  e ciò che abbiamo visto ci impone di testimoniare: eravamo già a conoscenza della situazione socio-politica, ma vedere con i nostri occhi la realtà ci ha fatto capire più approfonditamente cosa stia succedendo in quelle terre. Sarebbe meglio dire cosa stava succedendo, visto che ormai sono passati alcuni mesi dal nostro viaggio, mesi densi di cambiamenti, o più precisamente di eventi che hanno fatto presagire, che hanno promesso, che fanno sperare in qualche cambiamento. Purtroppo, per la maggior parte, la situazione che abbiamo incontrato è ancora attuale; per questo parleremo del nostro viaggio al presente, per permettervi di entrare meglio nella realtà che noi abbiamo sperimentato, per poi fare chiarezza su ciò che ora sembra essere diverso.
Siamo stati in Israele e nei Territori Palestinesi per circa una settimana: abbiamo prima soggiornato a Betlemme e poi a Gerusalemme, sfruttando queste due città come punti di partenza per le nostre visite, ma al di là del racconto del viaggio o della descrizione dei luoghi, ci teniamo a trasmettervi quello che abbiamo compreso della vita, nei suoi vari aspetti, in quei paesi.
                            
                 Elena e Mattia L.


Diario di viaggio   

L’impressione generale che deriva da quanto visto è che il governo israeliano, con la motivazione di garantire la sicurezza dello stato, stia in realtà mettendo in atto nei confronti del popolo palestinese un processo di graduale ghettizzazione, che sembra tendere al completo annientamento di quella gente, sul piano sia morale che fisico, e alla distruzione di qualsiasi possibilità di realizzazione dello “stato palestinese”. L’elemento più significativo di questa linea di condotta, sia da un punto di visto simbolico che a livello materiale, è la costruzione del famigerato muro di separazione, un mostro alto 8 metri che chiude in una morsa sempre più stretta i palestinesi e la loro terra. Questo abominio, che viene presentato come una “barriera difensiva”, si rivela in realtà uno strumento molto efficace per tre scopi: l’occupazione, la segregazione, e l’indebolimento dell’economia agricola. Innanzitutto, il percorso del muro non sta seguendo la cosiddetta “linea verde”, il confine pre-1967, ma ingloba sempre più territori, espropriando terreni coltivati, o comunque fertili, e pure risorse idriche; inoltre per costruirlo vengono abbattuti migliaia di alberi di olivo, fonte primaria di sostentamento di molte famiglie e perno dell’economia palestinese.

scarica la piantina, completa di legenda, in PDF !L’occupazione realizzata grazie al muro è poi integrata da un’altra strategia, che abbiamo visto in azione quotidianamente: la continua creazione all’interno dei territori palestinesi, di insediamenti israeliani, chiusi da recinzioni, con ingressi sorvegliati che negano l’ingresso ai palestinesi e raggiungibili, a volte, solo da strade private, la cui costruzione implica ulteriori espropri. Questi nuovi villaggi stanno progressivamente occupando, ad esempio, tutte le sommità delle colline attorno a Betlemme e in generale sorgono ovunque; all’interno di questi insediamenti si vedono spesso edifici vuoti, il che fa supporre che lo scopo principale sia proprio prendere possesso dello spazio, più che fornire nuovi spazi abitativi.
Oltre all’occupazione illegale del territorio, il muro (e con esso la strategia degli insediamenti) sta provocando una vera e propria
ghettizzazione, per molti aspetti simile a quelle imposte dal nazismo agli stessi ebrei o dal regime di apartheid del Sudafrica alla popolazione di colore: l’esempio di Betania, villaggio vicino a Gerusalemme, che, come altri, è stato letteralmente diviso in due a causa della costruzione del muro in mezzo alle strade, ci ha ricordato il caso emblematico di Varsavia, dove il quartiere ebraico venne separato dal resto della città. Come ebrei e neri nel passato, i palestinesi stanno ora perdendo il diritto alla liberta di movimento, essendo costretti a compiere deviazioni lunghe e scomode per recarsi in posti fino a prima molto vicini o vedendosi spesso negato l’accesso a determinati zone; di conseguenza subiscono anche gravi limitazioni dei diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro e alla pratica religiosa, in quanto diventa sempre più dispendioso e difficile (se non a volte addirittura impossibile) raggiungere gli ambulatori o gli ospedali, le scuole e i luoghi di lavoro o di culto.
Tutto ciò è dovuto non solo alla presenza del muro, ma anche al secondo fattore determinante dello stato di occupazione in cui Israele tiene la Palestina: i check-point (
posti di blocco), insieme ai loro “cugini”, gli sbarramenti. Noi stessi abbiamo avuto numerose esperienze all’ingresso di città, villaggi e quartieri e se per noi è stato relativamente facile e “indolore” passare (in quanto oltre a dover mostrare il passaporto ai militari, a volte scendendo uno per uno dal pullman, o a dover aspettare in coda per qualche tempo, non abbiamo subito altro) ci siamo resi conto invece di cosa significhi per i palestinesi: perdono ore ed ore per i controlli, che spesso diventano vere perquisizioni; in alcuni casi sono costretti a cambiare mezzo di trasporto per proseguire oltre; sono fatti passare in lunghe file attraverso corridoi costruiti da blocchi di cemento e reti metalliche, come animali in gabbia, nessuno escluso, donne, bambini, madri con lattanti, anziani…; è davvero una pratica umiliante, soprattutto se si ricorda che la devono subire per muoversi all’interno della propria terra!
Per quanto riguarda gli
sbarramenti, abbiamo trovato molte città (tra cui Nablus e Gerico) le cui vie d’accesso sono sbarrate da massi di cemento o cumuli di pietre e così ridotte ad una sola, ovviamente controllata, e in particolare abbiamo vissuto sulla nostra pelle la difficoltà di entrare in queste città-prigione: volevamo visitare Hebron, ma abbiamo perso più di un’ora e mezza per entrarci, visto che il primo tentativo è stato impedito da una sbarra che chiudeva una strada, senza nessun militare presente per poterla eventualmente aprire; il secondo da una striscia di macerie ben disposta perpendicolarmente alla carreggiata, così da bloccare qualsiasi automezzo; il terzo da una coppia di giovani soldati che ad un’altra sbarra non hanno voluto ascoltare le richieste di un gruppo di pellegrini alle tombe dei patriarchi (i due hanno anche avuto la gentilezza di chiedere il permesso al superiore per telefono, ma senza ottenerlo); alla fine abbiamo lasciato il pullman e attraverso stradine secondarie siamo entrati a piedi…
La combinazione di muro e blocchi ha evidenti, gravi conseguenze sui diritti vitali. L'accesso ai servizi sanitari, ad esempio: il villaggio di Taybeh, che fa riferimento all’ospedale di Ramallah, prima "distava" 13 km, ora ben 55! E nel corso del 2004 si sono verificate più di 60 nascite proprio  presso i check-point ( alcuni neonati sono stati chiamati Mashum, parola araba per “posto di blocco”) ed anche oltre 20 casi di morte, tra mamme e bambini...
E nell'ambito dell'istruzione basti pensare alla abnorme esperienza dei ragazzi palestinesi che per andare/tornare da scuola devono passare più volte per un check-point, dove vengono controllato a fondo e quindi "etichettati" come un pericolo,  possibili terroristi,  “cattivi” (e non si dice che i bambini finiscono per diventare proprio come noi li facciamo sentire?). E lungo la strada c'è sempre il rischio di incontrare qualche colono che ti saluta con urla e botte o ti lancia insulti o, peggio, pietre...
Sul piano lavorativo, l’economia ridotta allo stremo dagli espropri e la sempre maggiore difficoltà (o impossibilità) di raggiungere il posto di lavoro o di effettuare spostamenti e trasporti commerciali provocano una percentuale di disoccupazione attorno al 70%, tra le più alte al mondo; un caso esemplare è quello di Qalqilia, paese a nord di Ramallah ormai completamente circondato dal muro: gli abitanti sono costretti a contare solo sulle scarse risorse a disposizione nel fazzoletto di terra in cui vivono.
L’altra grande piaga della situazione palestinese che abbiamo potuto toccare con mano sono i
campi profughi, allestiti dal 1948 in avanti per ospitare chi perse la casa durante le varie fasi della colonizzazione israeliana. Inizialmente costituiti da tende fornite dalle Nazioni Unite o dalla Croce Rossa, ora questi campi sono diventati piccole città con edifici in muratura e basta visitarne uno, come quello di Dheisheh, vicino a Betlemme, per rendersi conto di cosa voglia dire vivere in uno dei luoghi più densamente popolati della terra: lì abitano più di 11.000 persone in 1 kmq, senza spazi verdi né campi da gioco, senza intimità di sorta, visto che la distanza tra una casa e l’altra è quasi nulla, con un solo ambulatorio e un solo medico per tutti, con una scuola che gli alunni frequentano a turno per mancanza di spazi e sotto la costante preoccupazione dell'arrivo dell’esercito israeliano (con bulldozer e bombe) per qualche demolizione a scopo punitivo. Quella avvenuta poco prima del nostro arrivo aveva interessato l’edificio destinato all’asilo, lasciando così 120 bambini senza un luogo dove stare, una strada percorribile a proprio rischio e pericolo per la caduta di macerie e 8 famiglie senza casa...
In ultimo  l'insopportabile senso di disagio che si prova a vivere (per noi solo per pochi giorni, figuriamoci per una vita intera!) in un’atmosfera angosciante come quella creata dall’elevata
militarizzazione della vita civile (città occupate come Hebron o la stessa Gerusalemme brulicano di soldati che esibiscono le proprie armi) e dal clima di sospetto che le autorità israeliane fanno pesare su palestinesi e stranieri, sia nelle città, sia, soprattutto, negli aeroporti; qui la preoccupazione per la sicurezza, fino ad un certo livello comprensibile, supera di gran lunga tale livello, trasformandosi in una specie di volontà persecutoria (gli incaricati arrivano all’assurdo di controllare il materiale cartaceo dei turisti e a indagare su eventuali contatti o conoscenze con i palestinesi) e discriminatoria, visto che il fare inquisitorio è diretto soprattutto ai soggetti in qualche modo assimilabili, per nome o fisionomia, al mondo arabo.

Dal nostro viaggio però non portiamo a casa solo impressioni in negativo, ma anche il ricordo di persone e realtà molto positive. Abbiamo visitato i laboratori di ceramica e i frantoi della Olive Branch Foundation di Taybeh-Ephraim (nonviolence@writeme.com) e il centro per il ricamo tradizionale della comunità melchita di Ramallah, due enti che cercano di creare le basi per la pace dando una possibilità di lavoro e guadagno alla popolazione locale. Ad Ibillin, vicino a Nazareth, abbiamo avuto il privilegio di incontrare Abuna (Padre) Elias Chacour, un sacerdote cristiano palestinese, candidato al Nobel per la pace qualche anno fa, che ha dedicato la sua vita alla creazione di un’istituzione educativa che accoglie per un ciclo di istruzione completo, dall’asilo alle superiori (e da due anni anche fino all’università), studenti di 4 religioni diverse, cristiani, ebrei, musulmani e drusi, contribuendo così alla diffusione di una cultura di tolleranza, riconciliazione e unità. Un altro segno tangibile della possibilità di una convivenza pacifica tra popoli diversi ci è stato offerto dal famoso villaggio cooperativo Nevé Shalom/Wahat al-Salam, il cui nome bilingue indica con immediatezza come lì vivano famiglie ebree e palestinesi (attualmente più di 50): queste organizzano insieme la vita della comunità e in particolare la scuola bilingue-binazionale, aperta anche a centinaia di alunni da molti villaggi vicini. Infine vicino a Betlemme, a Beit-Sahour, si trova il centro di riabilitazione gestito dal YMCA, i cui direttori, uno cristiano e uno musulmano, si occupano delle vittime del conflitto, curando la loro ripresa sia fisica che psicologica nonché anche il loro reinserimento a livello sociale e lavorativo...

 

 Da dicembre viaggio ad oggi sono accaduti eventi importanti, a cominciare dalle elezioni presidenziali dell’Autorità Palestinese, che hanno dimostrato la maturità, lo spirito democratico e la volontà di crescita libera e indipendente di quel popolo; ma soprattutto hanno finalmente avuto luogo i colloqui di Sharm El Sheik e l’occidente si è di nuovo impegnato nella questione. Di conseguenza, alcune città palestinesi sono state riconsegnate all’AP: questo significa che gli edifici occupati dall’esercito israeliano che abbiamo visto a Betlemme probabilmente ora sono stati abbandonati, e, come le immagini televisive ci mostrano, la città di Gerico non è più circondata da blocchi di cemento e postazioni militari…
Questi però sono solo piccoli passi. Passi sicuramente notevoli e portatori di speranza, ma ancora piccoli: rimangono quelle centinaia di km di vergogna, quel muro che continua ad avanzare (nonostante sia stato dichiarato illegale dal Tribunale Internazionale dell’Aja ancora a luglio 2004), quel pullulare di check-point e tanti altri pesanti elementi che non possono non essere definiti "di occupazione".In fondo nessun nuovo piano di pace completo, che cerchi di risolvere tutti i nodi della questione, tra cui il dramma dei profughi, è stato messo in piedi; e se si sta preparando il tanto proclamato ritiro da Gaza, le colonie nel West Bank (la Cisgiordania) continuano ancora moltiplicarsi sull'esempio di come abbiamo potuto
vedere con i nostri occhi a dicembre.
Diario di amarezza, diario di speranza.