Se la nozione
di montaggio
è tanto importante per la
teoria del cinema è anche perché essa è stata il luogo di dibattiti
profondi e duraturi tra due concezioni radicalmente opposte del cinema.
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una
tendenza è quella per cui il montaggio è considerato l’elemento
dinamico essenziale del cinema: “montaggio sovrano” (film anni
’20 sovietici, Ejzenstejn, Pudovkin);
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l’altra
tendenza è fondata su una svalutazione del montaggio in quanto tale e
sulla subordinazione dei suoi effetti all’istanza narrativa e alla
rappresentazione realistica del mondo, considerata come lo scopo
essenziale del cinema: cinema della “trasparenza” (Bazin).
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BAZIN:
il montaggio proibito |
Il
sistema di Bazin (Cos’è il cinema 1958-62) poggia su un
postulato ideologico di base, a sua volta articolato in due tesi
complementari:
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nella
realtà, nel mondo reale nessun evento è mai dotato di un senso del
tutto determinato a priori (è ciò che Bazin designa con l’idea di
una “ambiguità immanente al reale”);
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il
cinema ha come vocazione ontologica quella di riprodurre il reale
rispettando quanto più possibile questa caratteristica: il cinema deve
produrre delle rappresentazioni dotate della medesima ambiguità.
Questa esigenza si traduce per Bazin nella necessità
per il cinema di riprodurre il mondo reale nella sua continuità fisica e
fattuale.
L’essenziale delle concezioni baziniane si può
riassumere nei seguenti principi:
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“montaggio proibito” : ogniqualvolta l’evento reale sia fortemente
ambiguo il montaggio sarà
proibito. (esempio: un
cacciatore e la sua preda: il cacciatore potrebbe catturare la preda o
esserne divorato. Ogni soluzione di questo evento attraverso il gioco del
montaggio è puro imbroglio).
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“trasparenza” : nei casi in cui il montaggio non può essere proibito, l’evento
potrà essere rappresentato per mezzo di una successione di unità
filmiche discontinue, ma a condizione che questa discontinuità sia quanto
più mascherata possibile: è la nozione di trasparenza. Scopo del film è
quello di darci l’illusione di assistere a eventi reali che si svolgono
di fronte a noi come nella realtà quotidiana.
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“rifiuto del montaggio fuori raccordo”: Bazin rifiuta di prendere
in considerazione l’esistenza di fenomeni di montaggio al di fuori
del passaggio da un piano al seguente. Per questo motivo egli valorizza
(in particolare in Orson Welles) l’utilizzazione
delle ripresa in profondità di campo e in piano-sequenza.
Se infatti il montaggio non può che ridurre
l’ambiguità del reale costringendolo ad assumere un senso, la ripresa
in piani lunghi, che mostra più realtà in un solo spezzone di film e che
pone tutto ciò che mostra su un piano di eguaglianza di fronte allo
spettatore, deve logicamente essere più rispettosa del reale oltre che
permettere allo spettatore un percorso di lettura più libero e autonomo.
(vd. cit. Bazin, Orson Welles in Aumont p. 53).
I due modelli dominanti di montaggio: quello del découpage
classico e quello ejzenstejniano, pur antitetici, rivelano però un
aspetto comune: entrambi danno vita a un rapporto coercitivo nei confronti
dello spettatore, decidono cioè cosa mostrare, come mostrarlo, per quanto
tempo e in che ordine. Piano sequenza e profondità di campo danno invece
per Bazin, allo spettatore la possibilità di essere lui a decidere.
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Ci sono evidentemente delle
forzature nella teoria di Bazin:
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Come osserva
Costa, l’uso del piano sequenza non abolisce il montaggio
(che si ricostituisce come montaggio interno al piano o montaggio
in continuità) né porta ad un grado zero la scrittura filmica, tanto
è vero che l’uso del p.s. in autori come Godard
Straub, Jancso,
Anghelopulos, Antonioni,
Bertolucci diventa un procedimento di
affermazione di una radicale soggettività dell’autore. D’altra parte il cinema si può avvicinare al reale
ma non confondersi con esso. Non si può confondere la realtà con la sua
rappresentazione e anche la scelta di ridurre al minimo gli interventi di
manipolazione della realtà rappresentata può essere letta come una
scelta di discorso.
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Lo stesso
Welles peraltro in F for fake
esalta il montaggio come arte della manipolazione.
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Casetti
mette in evidenza come già
Hitchcock
ne La
donna che visse due volte
abbia fatto un uso del piano sequenza come possibilità
di alterazione del reale, come forma attraverso cui far
irrompere nell’immagine configurazioni spazio-temporali
“altre”. [inquadratura del bacio, in cui irrompe improvvisamente
un altro spazio (dalla stanza d’albergo alla rimessa delle
carrozze) e un altro tempo (quello del ricordo del primo
bacio tra i due)]
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Le indicazioni estetiche di Bazin ebbero però una
grande influenza estetico-linguistica su tutto il cinema europeo degli
anni ’50 - ’60, ma in particolare su tutti quegli autori che
perseguivano un’estetica realistica: Cahiers du Cinema (Godard,
Truffaut,
Resnais,
Rohmer,
Chabrol), i registi del Free Cinema inglese (Anderson,
Reisz), i propugnatori del Cinema direct (Morin,
Rouch) e su molti autori
che lo assunsero come strumento di scrittura elettivo: con Antonioni,
Fellini, Jancso il piano sequenza si sgancia da ogni pretesa di
verosimiglianza per diventare un puro artificio della messa in scena.
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P.P.
PASOLINI |
Un posto particolare tra questi autori occupa
P.P. Pasolini che si è a lungo occupato del piano sequenza anche a livello
teorico in Empirismo eretico (1972). Per
Pasolini il cinema è rappresentazione di
un mondo che è già rappresentazione, è “una scrittura che si
sovrappone ad un’altra scrittura” (realtà: caos privo di senso).
Il linguaggio cinematografico ha due strati. Sotto il
tessuto narrativo e rappresentativo del film, costituito dalla storia
raccontata e dal suo messaggio ideologico, vive uno strato primitivo
di elementi, di segni che egli definisce
“irrazionalistici, onirici, barbarici”.
In ogni film c’è sempre "un sotto film mitico e
infantile, che, per la natura stessa del cinema scorre sotto ogni film
commerciale”.
Il cinema in breve condivide le stesse contraddizioni
della realtà vissuta, che è significativa o insignificante, a seconda di
come noi la guardiamo. Per questo, dice Pasolini, ci sono due film in ogni
film:
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uno narrativo, logico, consequenziale
-
un altro dispersivo,
soggettivo, divagante come uno sguardo che si lasci attrarre dalle cose
pure e semplici (la soggettiva libera indiretta).
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Sono state rilevate molte
analogie tra il pensiero di
Pasolini e quello di Bazin:
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quello che Bazin chiama “il frammento di
realtà anteriore al senso” per Pasolini è “la memoria riproduttiva
senza interpretazione”;
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quella “ambiguità ontologica del reale”, di
cui parla il teorico francese, diventa per Pasolini il “mistero
ontologico”, il “sordo caos delle cose”.
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Pasolini parte dal film amatoriale di Zapruder, che
aveva ripreso accidentalmente la morte di Kennedy (utilizzato anche da
Stone in JFK). Questo filmato, dice Pasolini, non è un film, ma solo una
lunga interminabile soggettiva, un unico piano sequenza, una sola veduta
da un solo punto di vista.
Il
p.s., come soggettiva da dietro la m.d.p. si
contrappone per Pasolini al montaggio stesso, non come se fossero due
stili differenti, ma come due momenti essenziali della scrittura
cinematografica, imprescindibili, contrastanti, ma entrambi necessari:
Il cinema diventa una metafora della conoscenza: p.s.
e montaggio sono immagini di due momenti diversi del sapere;
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il primo
momento rappresenta la soggettività pura e primaria della coscienza che
ignora se stessa (una visione sorda e immediata delle cose),
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il
montaggio
è l’intenzionalità della coscienza che si mette in relazione con
l’oggetto e quindi anche con se stessa (interpretazione, ricerca di
senso).
Un p.s. lungo quanto il film stesso rimarrebbe un
vissuto privato, limitato e oscuro, equivoco e incomprensibile. Solo il
montaggio, collegando insieme diversi punti di vista, esce dalla
soggettività immediata e realizza il film come chiusura di senso, come
testo, come discorso.
Fin qui nulla di nuovo, ma la conseguenza che ne
trae Pasolini è radicale: il montaggio rompe la soggettività della
visione. Per questa ragione il montaggio appare a Pasolini come morte
simbolica. Analogamente alla nostra vita infatti, il p.s. può essere
considerato un eterno presente e come tale ininterpretabile, fino a che
non è terminato, concluso. Come è necessario morire perché la nostra
vita abbia un senso, così è necessario che il materiale filmato muoia
nel montaggio per divenire testo.
I film di Pasolini non partono da un senso
precostituito, non hanno messaggi che non siano i loro stessi personaggi,
sono però dei percorsi alla ricerca di un senso, in cui il camminare
stesso del personaggio, un camminare verso la morte, si fa metafora di
questa ricerca.
Come il personaggio non ha altro senso che la sua morte,
il film non ha altro senso che la sua fine.
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GODARD E LA
NOUVELLE VAGUE
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Se i film di Pasolini sono riflessioni sul cinema in
modo indiretto in quanto riflessioni sulla rappresentazione e sulla vita
come rappresentazione, per Godard (Il cinema è cinema 1968) invece il
cinema è un sistema rappresentativo che rappresenta innanzitutto se
stesso: il cinema è cinema in quanto estrinsecazione palese e sistematica
dei suoi stessi procedimenti.
La riflessione di Godard si applica ad una
sistematica distruzione del senso nella rappresentazione a ad una
sistematica pratica metalinguistica.
Godard cerca di scrivere il cinema come si scrive la
poesia, senza cura per la consecutività e la consequenzialità narrativa,
ma preoccupandosi solo di lasciare lo spettatore incerto fra le immagini e
il senso, segnalando sempre ciò che l’immagine ha di privato, di
contingente, di aleatorio, non previsto dal progetto del regista.
Gli autori della Nouvelle Vague hanno infatti trovato
proprio in Bazin uno dei loro ispiratori e hanno fatto un uso del p.s. che
in alcuni casi si può ritenere vicino ad una logica tradizionale del
montaggio (es. epilogo di Muriel di
Resnais), in altri casi
ne nega il presupposto originario e ne svela la reale essenza di costrutto
linguistico cioè di strumento utilizzabile, al pari di altri, al fine di
una scrittura filmica personale, che possa permettere all’autore di
esprimersi con la massima libertà, cioè non secondo stili e canoni
predeterminati.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda le tecniche di
recitazione e di ripresa basate sull’improvvisazione, le tecniche di
montaggio poco rispettose o addirittura noncuranti delle regole classiche
(vd. falsi raccordi), le tecniche di missaggio. In particolare in Godard
tutti gli aspetti tecnici ed espressivi sono volti ad ottenere una
destrutturazione della continuità filmica e una scompaginazione del
flusso narrativo.
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IL CINEMA
MODERNO
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Un po’ tutto il cinema moderno testimonia comunque,
con la radicalità che gli è propria, l’inesausto tentativo di piegare
il piano sequenza ai sensi e alle esperienze più diverse, tanto da
compromettere e incrinare irreparabilmente la pretesa di esprimere
attraverso esso la continuità spazio- temporale della realtà e
l’identificazione immaginaria dello spettatore con il p.d.v. della
m.d.p.
Il cinema della modernità nega cioè il carattere
realistico del piano-sequenza per rivendicare la sua essenziale natura di segno
linguistico cioè di figura utilizzabile prima di tutto al fine di una
scrittura personale.
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Nel
carosello finale di
Otto e mezzo
(1963)
Fellini utilizza il p.s. non per esprimere la realtà dell’evento
che il suo alter ego Guido (Mastroianni) sta per mettere in scena,
bensì per significare la capacità/possibilità del regista di trasformare
la realtà oggettuale in “discorso” per mezzo di un’abile messa in
scena/scrittura, che partendo da uno spazio reale ambiguo non specifico,
evochi lo spazio magico di un teatro per far scorrere i personaggi
del suo film (quello fatto da Fellini e quello “da fare” di Guido)
come nella passerella finale di uno spettacolo di varietà.
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Il
p.s. che chiude il film di
Antonioni
Professione reporter
(1974) svolge una funzione simbolica di chiave di lettura dell’intero
film: la
macchina da presa
abbandonato Nicholson sdraiato sul letto esce lentissimamente dalla
stanza dell’albergo e vaga per la piazza del paese, mentre il personaggio
va incontro al suo destino di morte.
Morte che viene confermata dall’ultima inquadratura, quando la camera
rientra nella stanza per mostrare il personaggio morto nel suo letto.
La funzione del
m.d.m. è quello di “non mostrare” la scena della morte, per togliere
alla scena una forte carica emotiva non desiderata dall’autore, una
funzione quindi di de-drammatizzazione: non mostrare l’evento drammatico
nel suo svolgersi, ma lasciarlo inferire allo spettatore.
”Non si vede <quello che conta>, tutto è sciolto nella fluidità
della visione: l’immagine è come abbassata, normalizzata, si coglie
il banale o il riflesso del fatto, legati nel tutt’uno del p.s.. Il
tempo si sviluppa in tutta la sua intensità drammatica, senza che
alcuna punta emerga sulla spinta del racconto.” (Tinazzi)
La poetica di Antonioni in questo film è quella di
partire da un racconto “giallo” con uno schema consolidato, per
rompere le linee del racconto, per cogliere l’eco dei fatti, le
rifrazioni, i momenti opachi, le zone d’ombra del senso.
In conclusione quindi, contrariamente ai suoi
presupposti ontologici, il piano-sequenza può essere utilizzato in forme e modi
assolutamente diversi che sempre più lo allontanano dall’originaria
vocazione realistica, per farlo diventare uno strumento linguistico
discorsivo di personalizzazione stilistica dell’enunciazione filmica.
E tuttavia c’è un aspetto non secondario del p.s.
che il cinema non mette mai in discussione: la sua capacità di
incrementare l’esperienza del visibile. Di produrre cioè una visione
che - anche nel caso di una rottura palese con il canone del realismo -
comunque accresce e arricchisce sensibilmente il tasso di visibilità
messo in atto.
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IL
CINEMA CONTEMPORANEO (postmoderno) |
Il cinema contemporaneo invece comincia a corrodere e
a mettere in crisi anche questo aspetto. Inizia a praticare il p.s. non
come forma vertiginosa ma ricca di visibilità bensì come artificio
linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà,
se non addirittura, l’incapacità di vedere.
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Omicidio in diretta (1998) di
De Palma
si configura come suggestivo ed emblematico esempio di film postmoderno
sullo sguardo e sulla pluralità di occasioni che il nuovo scenario
tecnologico offre al nostro inesausto bisogno di sperimentare sempre nuove
modalità di esercizio del vedere. Nell'incipit la scena si apre all’esterno del Casinò di
Atlantic City, dove una speaker televisiva annuncia l’imminente incontro
di pugilato. Sembra l’inquadratura frontale di un personaggio che parla
davanti a un microfono, ma un repentino allargamento di campo svela che ciò
che stavamo vedendo altro non è che un monitor televisivo che trasmette
non la “realtà” ma la sua codificazione mediatica. Lo sguardo
“serpentino” (Snake eyes - titolo originale - nel gioco d’azzardo allude al punteggio più
basso, quindi scacco, débacle, sfortuna...) di De Palma comincia fin dalla
prime immagini a rimescolare le carte e a confondere gli spettatori.
Subito dopo la m.d.p. si getta in un vorticoso p.s.
di dodici minuti che, seguendo un adrenalinico Nicholas Cage, porta lo spettatore
su e giù per la gradinata e i corridoi del palazzo dello sport, vicino al
ring e infine lo immerge nel panico che dilaga tra la folla dopo il colpo
dell’arma da fuoco. In questi dodici minuti non si vedono né il ring, né
soprattutto i killer. Il p.s. non mostra né il fulcro diegetico della
realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto.
Mostra piuttosto l’inattingibilità del primo e la
sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al
limite estremo le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il
suo non saper vedere quanto, forse, il suo non saper cosa guardare.
E’ riduttivo limitarsi, come hanno fatto molti
critici, a lodare il “virtuosismo manierista”, la perizia tecnica di
De Palma: secondo Canova l’incipit del film vale solo nella misura in
cui è la mossa di apertura di un match che va giocato tutto fino in
fondo. E che ha come posta in gioco la disorientante instabilità del
nostro sguardo.
Sembra l’illustrazione paradigmatica e la traduzione
visiva delle “intensities” di F. Jameson nella sua analisi del
postmoderno: “una macchina per la produzione di alti e bassi scopico -
emotivi, che opera in un regime ludico - allucinatorio senza più nessuna
diretta relazione né con la percezione del mondo, né con la decodifica
del linguaggio che lo dice”.
Omicidio in diretta ci immerge in un match di
pugilato in cui non si vede il match, disegna una prossemica del panico in
cui non c’è la folla, configura una scena del delitto in cui si
potrebbe anche fare a meno di vedere il morto. Il massimo di visibilità
nevrotica prodotta illusoriamente dal piano-sequenza coincide con il minimo dei
contenuti “reali” della visione.
Tale uso del
p.s., ben lontano sia dalla concezione
realistica del cinema classico che da quella metalinguistica del cinema
moderno rientra in quella che Canova definisce “crisi delle forme
filmiche” propria del cinema postmoderno, che egli interpreta come un
“malessere segnico” che esprime la difficoltà del cinema
contemporaneo di continuare a far funzionare alcune delle più consolidate
forme filmiche (p.s., soggettiva, flash back, dissolvenza incrociata)
secondo i loro collaudati meccanismi di significazione e di espressione...
Canova si rifà a
Jameson per individuare i caratteri
costitutivi del postmoderno:
1.
ibridismo: crollo della distinzione tra cultura d’èlite e cultura di massa
2.
frammentarietà: il soggetto è frantumato e disorientato dalla crisi di tutte le forme
identitarie tipiche della modernità (nazione, partito, stato)
3.
superficialità: mancanza di profondità, gusto per la superficie. La profondità è
sostituita dall’ intertestualità
4.
euforia: alla mancanza di profondità l’individuo reagisce sviluppando
un’emotività simile a quella dello schizofrenico, del drogato
5.
omogeneizzazione dello spazio: l’omogeneizzazione dello spazio subisce dei
processi di ibridazione, frammentazione, appiattimento
6.
presentificazione del tempo: cancella la storia. Dimensione sincronica più che
diacronica. Ciò comporta la fine dello stile individuale sostituito dalle
pratiche della combinazione, del riuso, del gioco, del pastiche. |
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Tutto ciò si traduce, nel linguaggio filmico, in
tendenza all’autoreferenzialità, citazionismo, recupero dei generi,
ostentazione del meraviglioso filmico, ipertrofia dell’intreccio,
destrutturazione del racconto, ambiguità dei narratori e inaffidabilità
delle informazioni prodotte.
|
Per
concludere, se per
cinema classico si
intende un cinema di genere, grammaticalizzato, in cui la messa in scena
viene occultata e la narrazione sembra farsi da sola e per cinema
moderno, un cinema sperimentale, espressivo, d’autore, un cinema
come riflessione metalinguistica sulle strutture dell’immagine, del
racconto (Resnais-Duras), del rapporto realtà - rappresentazione
(neorealismo), in cui la materialità dell’immagine viene esibita, per cinema
contemporaneo (dagli anni ’70 in poi) si intende un cinema che torna a
grammaticalizzarsi, indirizzato però ad un pubblico più maturo, in cui
la materialità dell’immagine viene rivelata per implicare lo spettatore
in un nuovo gioco: non più capire ma giudicare, presupponendo la figura
di uno spettatore modello al quale si riconoscono competenze superiori a
quelle tipicamente infantili nell’interpretazione del film.
La
“concettualità” del godimento viene spostata dalla sofferenza del
testo (vd. Godard) al piacere del testo: non si tratta più di farsi
attraversare dall’opera, ma di attraversarla con una competenza di tipo
tecnologico.
L’innovazione tecnica non è più vissuta per le sue
implicazioni linguistiche,
ma goduta come plusvalore aggiunto alla diegesi
! |
Se queste sono tutte caratteristiche del cinema
contemporaneo si può capire come in esso non si possa più parlare di
un’estetica del montaggio dominante. Liberatosi dalle costrizioni grammatical-sintattiche
del montaggio analitico e dall’asservimento al realismo del movimento di
macchina e del piano sequenza, il cinema contemporaneo usa sempre più la
cinepresa come una camera-stylo e il linguaggio come uno strumento duttile
e plasmabile ai fini di una scrittura creativa molto personalizzata.
Il montaggio analitico può essere alternato al piano
sequenza e talvolta può persino ricorrere alle lezioni ejzenstejniane per
brevi sequenze. In teoria tutto può essere mischiato insieme purché il
risultato sia funzionale a ciò che si intende esprimere.
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Gli appunti sono tratti dai seguenti testi:
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AA.VV.
Estetica del film, Lindau
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S.
Bernardi,
Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere
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A.
Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani
-
A. Costa,
Saper vedere il cinema, Bompiani
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