Heimat 2

Da HEIMAT a DIE ZWEITE HEIMAT

      Ci sono luoghi mitici della cultura e della narrativa, luoghi in cui il fascino della fabulazione ha costruito per noi mappe e ambientazioni, squarci e paesaggi che hanno trovato posto nella nostra memoria, al limite tra il ricordo e la fantasia: dalla TERRA DI MEZZO (Il signore degli anelli) alla contea di YOKNAPATAWPHA dei romanzi di Faulkner, dal continente di ATLANTIDE alle isole dei Viaggi di Gulliver (BROBDINGNAG e LILLIPUT), dal PAESE DELLE MERAVIGLIE di Alice alla BAY CITY dei neri di Raymond Chandler, dal pianeta ARRAKIS (Dune) a MACONDO (Cent'anni di solitudine) . Ad un'infinità di luoghi d'immaginazione letteraria la geografia fantastica del cinema ha corrisposto solo rari esempi a tenuta mitica (alcuni originali come XANADU', BRIGADOON, SHANGRI-LA, altri rigenerati da testi preesistenti: FORT APACHE, l'ISOLA-CHE-NON-C'È, TARA, GOTHAM CITY) anche in conseguenza della durata limitata del corpo narrativo cinematografico, che non sempre possiede un respiro tale da sedimentare nell'immaginario i luoghi della finzione filmica oltre ai personaggi e alle atmosfere.

     Un caso speciale quindi da considerarsi il paese di SCHABBACH, nell'Hunsrück meridionale in cui abbiamo conosciuto le diverse generazioni (dal 1919 al 1982) della famiglia Simon attraverso quel mega-film che fu Heimat, presentato al Festival di Venezia nel 1984. La mole realizzativa di Heimat (11 episodi, per una durata di oltre 15 ore) impressionò quanto la sua grandiosità narrativa, la scorrevolezza intrinseca di una tematica complessa e di ritmi e tempi dilatati, la pregnante fisicità di quei luoghi, di quell'ambiente umano che Edgar Reitz seppe dipingere con straordinaria abilità, coniugando la storia della sua patria con la storia dei suoi personaggi, la saga di una famiglia nell'epoca tra le due guerre, negli anni bui del nazismo, nel periodo ambiguo della rinascita economica.
Sia chi ebbe l'occasione di vedere Heimat sugli schermi del Lido, sia chi lo scoprì come una appuntamento "carbonaro" nelle notti estive di Rai 3, percepì la fascinazione della straordinaria ariosità del racconto, dell'incredibile intrecciarsi di piccoli e grandi episodi, dell'apparire e scomparire di una miriade di personaggi, tutti ugualmente indispensabili alla crescita globale della narrazione, al configurarsi di una saga-simbolo tra storia e memoria. Meno immediata, ma non meno suggestiva fu la puntualizzazione sul significato del termine Heimat, non Patria nell'accezione comune, ma più precisamente "luogo natale e di residenza, paese d'origine e casa paterna" (definizione lessicale) o ancora, secondo una citazione da Ernst Bloch "il regno delle brame e delle nostalgie, dei desideri e dei bisogni... La grande miniera della prassi non ancora addomesticata, il luogo del desiderio non ancora esaudito"
Su tali premesse e sul successo di critica e pubblico che in Germania accompagnò Heimat, Edgar Reitz iniziò nel 1985 a scrivere una seconda maxi-storia partendo non dalla fine cronologica del primo film, ma dal personaggio cardine (e in parte autobiografico) che aveva animato gli ultimi episodi: il giovane Hermann, figlio di Maria e di Otto, primo intellettuale del ceppo Simon, musicista e compositore, "esule" a Monaco di Baviera per completare i suoi studi, per scoprire se stesso e il mondo nella "seconda patria" che il destino gli ha riservato.
"Quando, alla fine degli anni settanta, cominciai a girare Heimat, mi trovai a dover affrontare una decisione molto importante: i personaggi che vivevano nella cittadina del film, Schabbach, erano tormentati dalla voglia di andare via ed alcuni di essi se ne erano andati per non far più ritorno per una vita intera. Nella veste di narratore dovevo decidere se accompagnare quelli che se ne andavano o rimanere nella cittadina e seguire la storia di quelli che restavano. Scelsi la seconda versione, e così si creò l'immagine di una comunità cittadina, di un vincolo familiare, di un mondo che funziona solamente nell'infanzia. Heimat, la terra delle origini, sempre qualcosa che si è perduto, una nostalgia, un desiderio che non si realizza mai. Si resta delusi, se ci si prova a tornare...
Negli anni della produzione di Heimat ho pensato spesso all'altra versione: una narrazione che accompagnasse uno di quelli che se ne andavano lungo il cammino al di fuori della cittadina, del paesaggio, della famiglia, del mondo dell'infanzia. Molti di noi hanno vissuto un'esperienza simile, ed essa ci ha influenzati non meno della stessa Heimat, della terra dalla quale proveniamo...
Ho impiegato sette anni di lavoro per poter finalmente presentare questo secondo film, Die zweite Heimat (La seconda patria). Il titolo non indica la prosecuzione di Heimat, bensì quel luogo che scegliamo da adulti e nel quale decidiamo di fermarci. Il lavoro, le amicizie, la famiglia che ci formiamo sono le caratteristiche di questa patria di elezione. Essa si fonda sulla nostra decisione. Ma l'amore, l'amicizia, il lavoro sono valori che si disgregano facilmente. Nella seconda patria si vive su un suolo incerto. La nostra tensione verso la libertà è irrinunciabile, ma pericolosa per ogni legame. La seconda patria è sempre una cosa provvisoria... Come protagonista ho scelto Hermann, il ragazzo che se ne va da Schabbach, dopo che la sua famiglia ha distrutto il primo amore. Come era stato annunciato in Heimat, Hermann va a vivere in una grande città, per studiare musica. Insieme a lui percorriamo il decennio che egli impiega per diventare adulto: gli anni sessanta. Insieme a lui incontriamo gli altri personaggi, che vorrebbero realizzare i loro sogni nella città, giovani musicisti, cineasti, attori, letterati, insomma, i giovani artisti su cui da sempre Monaco ha esercitato la sua attrazione... Mentre Heimat descriveva l'infanzia, la cittadina, la famiglia, il racconto parla ora del passaggio all'età adulta, della vita nella grande città, dell'amicizia e dell'amore"

Per narrare tutto ciò, per riprendere il filo della memoria e dei sentimenti di cui si intesse il suo cinema, Reitz ha costruito con Die zwiete Heimat un'altra opera monumentale, ancora più ampia, nella gestazione e nei risultati, del lavoro precedente: 2143 pagine di sceneggiatura, 7 anni per la produzione, 557 giornate di ripresa, 71 attori, 310 comparse, 372.046 m di negativo e 48.000 m di edizione definitiva per un totale di 25 ore e 32 minuti di cinema suddivise in 13 episodi.
Si parte dal 1960 quando Hermann, ventenne musicista di talento, con il cuore in pezzi per un amore perduto, lascia la sua Schabbach, per studiare composizione musicale all'Università di Monaco e si arriva al 1970, anno in cui ritornerà nell'Hunsrück, sereno e maturo, riconciliato con la vecchia e la nuova patria, capace di accettare nella vita il peso dei ricordi e il valore del saper attendere.
Musicisti, cineasti, intellettuali dello Schwabing (il quartiere degli artisti di Monaco) diventano i suoi amici; nelle notti elettrizzanti alla Tana della volpe e nei continui stimoli dell'ambiente culturale che lo circonda prende forma la sua visione della realtà, il suo mondo, che è il mondo narrativo su cui si costruisce Die zwiete Heimat. Il film di Reitz attraversa tutto un decennio descrivendo con profonda sensibilità protagonisti e situazioni, distillando il tempo cinematografico in una pacatezza che non è mai esasperante ed identificando ognuno dei 13 episodi in un momento storico-poetico al quale corrisponde la singola focalizzazione di un personaggio, su cui si accentra via via la vicenda: Juan, un genio polivalente, musicista, poliglotta, giocoliere, Evelyne e Ansgar che si amano di un amore romantico fuori dal tempo (ma che la morte banalmente distrugge), Helga che incarna lo spirito ribelle della nuova giovane Germania, Alex timido intellettuale-filosofo (e coscienza storica del gruppo); e poi Clarissa, il grande amore di Hermann, violoncellista e cantante in fuga dal coinvolgimento dei sentimenti, Schnüsschen, la mogliettina ideale, dolce e borghese ragazza di provincia, la più anziana signora Cerphal, elemento di raccordo tra le diverse generazioni, ed infine Reinhard, Rob e Stefan i tre cineasti che, mescolando cinema e vita, imprimono un carattere ulteriormente autobiografico all'opera.
Attento all'evolversi delle psicologie e alla visione collettiva che il loro fondersi costituisce, Reitz preferisce tenere provocatoriamente "alla finestra" l'universo di riferimenti storici di quei fatidici anni '60 (solo accennati da squarci marginali), mentre ciò che acquista spessore nell'evolversi del racconto è il fluire quasi proustiano di sensazioni e ricordi che sono quelli dei protagonisti e del regista, della storia europea e del nostro immaginario in cui davvero Die zweite Heimat riesce a configurarsi come un'indimenticabile seconda patria cinematografica.
Il tema unificante è quello della musica, la neue musik della Germania di quegli anni e che per Hermann e compagni (soprattutto per Jean-Marie e Volker, ai quali mancato l'onore di un episodio personale) è il respiro del vivere. In Die zweite Heimat ci sono di continuo spazi-concerto che scandiscono l'evoluzione artistica dei protagonisti e che riescono progressivamente a coinvolgere anche lo spettatore meno musicofilo in un percorso sonoro che è quello dell'affermarsi delle composizioni d'avanguardia come realtà artistica del novecento.
Ma l'anima di Die zwiete Heimat è anche un'anima romantica, turgida di un desiderio d'amore che trova continui ostacoli alla propria placida espressione: Hermann fugge da Schabbach proprio a causa del negato amore di Klärchen; Evelyne, che scopre come i suoi genitori abbiano vissuto un amore intenso e fuggevole, è destinata lei stessa a perdere tragicamente il suo caro Ansgar; Olga non conosce relazioni durature (e in ogni caso gli uomini che sceglie, Ansgar e Reinhard, sono segnati dal destino), Renate incarna la banalità dell'amore fisico ed Helga la sensualità della liberazione sessuale (ma chi ne fa le spese il tormentato Stefan), mentre Reinhard trova in Esther la passionalità e l'ispirazione per la sospirata sceneggiatura. Volker infine ama sinceramente Clarissa ma è destinato ad una relazione di "supplenza" perché il vero amore del film quello tra Clarissa ed Hermann: un amore ricambiato, ma tenuto sempre sulla soglia a causa della immaturità dei due, che si maschera dietro la voce adulta della loro musica.

Ma Die zweite Heimat è anche un trattato generazionale. Il confronto, che si fa scatenante a partire dal nono episodio (la speculazione edilizia che "abbatte" la Tana della volpe, gli imbrogli finanziari della famiglia Cerphal, lo sconvolgimento e le responsabilità del nazismo incarnate dal signor Gattinger), ritorna di continuo nelle relazioni tra genitori e figli: Evelyne ed Ansgar si amano con l'intensità dei genitori di lei, ma su Ansgar pesa l'ottusità di un padre e un madre bigotti ed egoisti; Helga appena rientra a Dülmen si scontra con la sua famiglia; Alex ha, sul comodino, una foto del padre che lo suggestiona sul valore dell'amicizia e del denaro, Jean-Marie e Volker dialogano sulle diverse realtà sociali da cui provengono; Clarissa deve subire il peso dell'esperienza di sua madre la quale, abbandonata in gioventù, ora esterna nella sua severità i timori per un avvenire sbagliato per la figlia. Il console Handschuh (anche lui con la coscienza poco pulita rispetto agli anni della guerra) custodisce nella sua grande casa una camera per un figlio che non è mai riuscito ad avere; di contro Hermann abdica come padre e Clarissa non riesce a trovare il giusto sentimento materno verso il bambino che ha avuto con Volker. Infine, se Esther non sa darsi pace per la perdita della madre deportata a Dachau e per la crudeltà del padre che non ha fatto nulla per impedirlo, Reinhard invece ricorda con affetto il suo genitore anche se su di lui, aviatore, pesa un'altra vergogna della generazione dei padri, il bombardamento di Guernica ("Anche lui è un assassino" - "Sì, ma tanto caro").
Alla suggestione di Die zweite Heimat contribuiscono un pullulare di assonanze narrative, di metafore minimali, di particolari apparentemente trascurabili che si combinano in un continuo rimando di situazioni ed emozioni, di misteriose casualità e di intime coesioni tra i vari personaggi della storia, tra gli infiniti tasselli del mosaico complessivo. Così nel secondo episodio compare nelle mani di Reinhard un fucile (un ricordo del padre) a cui lui tiene molto (non per niente cita John Wayne): Olga lo imbraccia e uccide simbolicamente Ansgar che l'ha abbandonata. Ansgar stesso nell'episodio seguente fa continui discorsi sulla morte e di lì a poco il suo destino tirerà le fila dei presentimenti. Quel fucile ricomparirà al matrimonio di Hermann: Juan lo usa per il suo tentato suicidio e Stefan, furibondo con Reinhard perché l'ha lasciato carico, vuole spaccarglielo in testa, scatenando la lite che li far cacciare tutti dalla "Tana della volpe". Sempre al matrimonio, Evelyne compare in compagnia di un africano e ciò viene d'un tratto a collegarsi ad un'isolata sequenza in cui avevamo intravisto quell'uomo di colore seduto in una chiesa vuota, a rimarcare forse il disagio dell'integrazione multirazziale nella Germania del dopoguerra.
Ancora, nel quarto episodio, Helga, mentre ritorna a casa, vede dal finestrino del treno Stefan e gli altri che in una stazione girano le sequenze di un film, ma quando torna sul posto non c'è più nessuno, solo una serie di foglietti, attaccati qua e là, con le battute dei dialoghi... Hermann intanto, che viaggia verso Dülmen in autostop, trova un passaggio da un guidatore che, affetto da improvvise pause di incoscienza, rischia di continuo un incidente, ma si considera fortunato perché "così non ho i problemi di quelli che non possono dimenticare". Se un albero caduto sfonda le finestre della "Tana della volpe" proprio all'inizio dell'episodio che vede la morte di Kennedy irrompere bruscamente nella privacy del gruppo, alla festa di matrimonio, mentre Hermann e Schnüsschen sigillano con un bacio la loro momentanea felicità, il montaggio contrappone l'arrivo all'areoporto di Clarissa. E quando a Venezia, dove Reinhard vive la sua storia d'amore con Esther, la macchina da presa indugia più volte sulla sfera luminosa della luna, non bisogna dimenticare che proprio in quell'anno il Surveyor I atterrava sul satellite.

Infine nell'ottavo episodio Elisabeth Cerphal, che ha trovato una pistola tra gli oggetti del padre, mentre si abbandona ai ricordi, spara un colpo che va a colpire la sedia dello studio, simbolo del comando del vecchio genitore. Scopriremo a fine episodio che proprio in quel momento, nel suo letto all'ospizio, il signor Cerphal esalava l'ultimo respiro...
Die zweite Heimat vive di questi magnetici frammenti che rivitalizzano di continuo uno script così monumentale, concedendogli una straordinaria scorrevolezza. L'inusuale durata e l'intarsio del racconto diventano la chiave di volta per un'immersione totale in cui la pacatezza del tempo narrativo adegua il nostro sentire al complesso intreccio della storia ed il meccanismo di identificazione opera sulla nostra sensibilità con una forza di finzione che lambisce la realtà.
E' difficile far percepire la sofferenza che si sente sulla propria pelle nel partecipare all'odissea sentimentale di Hermann e Clarissa, l'istintivo, destabilizzante fascino che emana Helga, lo sconcerto che ci assale all'improvvisa scomparsa di Reinhard. Quello di Edgar Reitz è un cinema memorabile, incredibilmente ispirato, coinvolgente nel rievocare la magmatica complessità dell'epoca, commosso nel descrivere luoghi e personaggi, nel dar parole (e musica) alla forza del desiderio della "seconda patria". Il suo viaggio attraverso la Germania degli anni '60 è il viaggio di una generazione attraverso il decennio della propria crescita interiore e il vivere da spettatori l'Heimat-film è un'esperienza nostalgica di ininterrotta suggestione ed intensa liricità.

ezio leoni