Luca
è un medico italiano che lavora in Kenia, solo, fatta eccezione per
un'infermiera e qualche aiutante, in un piccolo ospedale umanitario. Mario
è uno stimato chirurgo di una clinica privata romana, che lo raggiunge con
la scusa di volerlo rivedere dopo anni di distanza, ma in realtà mira ad
allontanarsi opportunisticamente e brevemente dal luogo di lavoro. Quando,
malgrado le diverse scelte di vita, Mario e Luca ritrovano le ragioni
dell'amicizia che li aveva tanto legati in passato, si presenta in Africa
anche Ginevra, la donna che entrambi hanno amato e che ha sposato Mario.
Gli equilibri faticosamente raggiunti saltano e la vita si ripresta a
svolte e imprevisti.
Lucio Pellegrini è un regista giovane, estraneo a smanie di megalomania,
uno che non si è mai presentato sullo schermo senza una storia, che sa
cos'è la commedia e come si dirigono gli attori. Uno che parla del nostro
paese e del suo presente (suo a tutt'oggi l'unico film a parlare dei fatti
di Genova del 2001), anche quando esso è irrimediabilmente invischiato nel
passat(ism)o.
Dopo essersi sperimentato nel comico (i film con Luca e Paolo) e
nell'omaggio alla commedia all'italiana (Figli
delle stelle), con
La
vita facile
tenta una strada ibrida, che contamina genere e sentimento, e si rivela
piacevolmente più libera. Non tutto deve “tornare” a tutti i costi nella
sceneggiatura di Bises, Paolucci, e Salerno; il film non si diverte solo a
raccontare personaggi che rivelano man mano aspetti del proprio essere che
contraddicono l'etichetta che gli abbiamo facilmente messo indosso, ma
anche a disattendere le aspettative formali e strutturali: il piccolo
Ippocrate non si farà del male, la sua famiglia non inseguirà Favino con
le lance appuntite, l'infermiera Elsa (Camilla Filippi) non passerà
dall'altra parte dei ferri. Perché questo è un altro film. Più libero,
appunto, di giocare, da un certo inoltrato momento in poi, con gli
ingredienti del genere –valigette, tradimenti mélo, il caveau di una banca
e una femme fatale- ma anche più vivo e meno scritto di altri, più attento
ai volti che ai tramonti.
Detto questo, non ci si aspettino da Pellegrini le “bolle”, le
sospensioni, le divagazioni del cinema indipendente che della libertà di
struttura fa il suo credo: la sua attenzione al ritmo è rigorosa, la
sbavatura bandita, la scena si chiude sempre con un attimo di anticipo
piuttosto che di ritardo. Di una cosa, però, gli siamo particolarmente
grati questa volta, e cioè di averci regalato un personaggio femminile
fuori catalogo, di cui nel cinema italiano si sentiva la mancanza. Il
personaggio della stronza. L'inquadratura della Ginevra di Vittoria
Puccini, viziata, capricciosa, tanto bella quanto instabile, che
all'aeroporto piange di frustrazione anziché di dolore, dà al film una
coraggiosa e gustosa punta di sapore in più. |