Timbuktu
Abderrahmane Sissako - Francia/Mauritania 2014 - 1h 37'

in concorso - CANNES 67

   Sissako compone un potente mosaico, a tratti leggero, più spesso drammatico, di una quotidianità resa terribile dalle leggi imposte dagli integralisti islamici. Il suo sguardo lucido e poetico, anche nei momenti più brutali, sottolinea la crudeltà di imposizioni e divieti assurdi di un Potere assoluto e cieco. Mai così di attualità, dati i recenti fatti che hanno sconvolto il mondo, Timbuktu scrive tra il deserto e l'intolleranza un capitolo prezioso per la conoscenza e il contenuto artistico.

motivazione Film della Critica - SNCCI 

   La città edificata da un bambino che gioca con la sabbia, Timbuktu con le sue case dalla facciata merlettata dai colori fusi con la terra del deserto, è il set del film che si batterà per l’Oscar al migliore film straniero, dopo aver sfiorato un premio a Cannes. Lo ha diretto con finanziamenti anche francesi il mauritano Abderrahmane Sissako, 53 anni, tra i più pregiati narratori del cinema contemporaneo (Bamako, La vie sur terre). Immagini rarefatte, miraggi pittorici, contorni sfumati nella polvere gialla... una bellezza che Sissako cattura facilmente come una farfalla nella rete, lì in un luogo degno delle sette meraviglie del mondo, e che negli ultimi anni è stato calpestato dal gruppo al-Qaida nel Maghreb islamico.
È il vertiginoso contrasto con il sito fiabesco e il potere sadico dei figli degeneri di Allah che il regista mette in scena, racconto sulla “banalità del male” tra le dune del Sahara.
Timbuktu, titolo imperdibile, si apre con il tiro a bersaglio su statuette antiche di terracotta, a ricordare il santuario e altre quattro dimore “patrimonio dell'umanità” demolito dagli islamisti, iconoclasti salafiti, che pattugliano le strade sterrate a bordo di motorette e fuori strada. Ma non siamo in un film d'azione. E, attenzione, uno dei motociclisti è avulso, avrà un ruolo “benefico” nella storia, forse è un doppio dello stesso regista.... Il lento flusso di una normalità perversa sale dalla languida regione, un branco di mucche in cerca di arbusti rinsecchiti, il fiume Niger, la luna grande, il profilo di una tenda, il silenzio.
Alle porte della città vive Kidane (Ibrahim Ahmed), la faccia di un Rodolfo Valentino “figlio dello sceicco”, la moglie Satima (Toulou Kiki) e una figlioletta sognante. Immersi nel nulla, si tengono lontani dal gruppo di maschi armati, specie di bulli indolenti, guardie di una jihad a uso privato, che impongono l'hiijab e i guanti alle donne, vietano la musica, il calcio (che ci condurrà in una variazione alla “Antonioni” di grande ferocia satirica), introducono la sharia, gli adulteri saranno lapidati. Sissako anticipa il rapimento delle liceali nigeriane, e mostra la pratica dei matrimoni forzati. Tutto in punta di macchina da presa, spargendo humour, paradossi surreali, come quando un ragazzino recalcitrante, scelto per uno spot di propaganda, si inceppa nella pomposa retorica integralista e si mette a mimare i gesti del rapper. C'è chi non parla bene l'arabo, e si esprime in francese o inglese, c'è chi è un tuareg, chi conosce solo la lingua del suo villaggio, sono i seguaci reclutati controvoglia da un manipolo di capi da cupola mafiosa, rinnegati dal mullah della moschea, predicatore per la pace e per il vero Corano. La debolezza umana che trapela dai volti bendati è più devastante che mai, visti da vicino gli alqaedisti perdono d'intensità drammatica, altro che scontro di religioni, le squadre di barbuti con megafono diramano ordini ridicoli, e poi frustano a sangue ragazzi e ragazze canterini.
Il regista mauritano realizza un film vicino alla poetica di Idrissa Ouedraogo, burkinabé, con i suoi tempi sospesi, minimalismo passionale e una implacabile suspense. Ritratto del Mali e del conflitto nel nord del paese cavalcato da al-Qaida, prima dell'intervento francese del 2013. La radiografia dell'integralismo, però, non ha frontiere, e il cinema di Sissako smaschera l'ipocrisia di questi soldati di dio, sguinzagliati dalle forze di controllo non solo regionali - il petrolio è sgorgato di recente nel Mali - con il compito di stroncare ogni insorgere di libertà. Timbuktu, Eldorado di cultura e di ricchezza, al suo massimo splendore nel 1500, ridotta ai margini della civiltà, è come l'elegante e fragile gazzella che corre nel prologo del film inseguita dalle mitragliate di uomini su una jeep. Raffiche che falciano un cespuglio di erba in una sequenza folgorante, digressione surreale da Man Ray, a disertificare il “corpo” sensuale delle dune. Corrono anche i bambini, alla fine, orfani di tanti padri, in mezzo alla distesa ondulata, il deserto che non ha protetto Kidane ma che sembra troppo grande e meraviglioso per diventare preda del disumano.

Mariuccia Ciotta - Il Manifesto 

   A poca distanza da Timbuktu, dove domina la polizia islamica impegnata in una jihad in cui divieto si aggiunge a divieto, una famiglia vive tranquilla sulle dune del deserto. Sotto un'ampia tenda Kidane, Satima e la loro figlia Toya possono solo cogliere dei segnali di quanto accade in città. Il giorno in cui il loro pastore dodicenne si lascia sfuggire la mucca preferita che distrugge le reti di un pescatore nel fiume che scorre tra la sabbia, tutto però muta tragicamente. L'animale viene ucciso e Kidane non accetta il sopruso.
La fonte di ispirazione di questo intenso quanto rigoroso film di uno dei Maestri del cinema africano è rintracciabile in un fatto di cronaca accaduto in una cittadina del nord del Mali. Una coppia è stata lapidata perché portatrice di una colpa inaccettabile agli occhi accecati degli integralisti islamici: i due non erano sposati. Sissako però non vuole essere il narratore di un fatto di cronaca accaduto in un Paese che non fa notizia e non origina mobilitazioni internazionali. Vuole raggiungere, riuscendoci, un obiettivo molto più elevato. Lo testimonia la stessa struttura del suo film che si sviluppa sul piano di una continua alternanza per almeno tre quarti della narrazione. Da un lato uomini che cercano a fatica nella lingua araba la loro radice mentre impongono norme che condizionano anche la più quotidiana delle attività avendo spesso di mira le donne e dall'altra la vita di una famiglia che conosce l'armonia e la fedeltà (quella vera e profonda) nelle relazioni parentali e con la divinità. Sissako ci fa percepire la distanza abissale tra questi mondi grazie anche a una fotografia di straordinaria bellezza e intensità che non si perde mai nell'estetismo autoreferenziale. Non è un film anti-islamico il suo (il discorso che l'imam locale fa al neofita jihadista ne costituisce la prova più evidente). È piuttosto un grido di allarme lanciato a un Occidente spesso distratto (salvo quando si presentino episodi mediaticamente rilevanti come il sequestro di giovani studentesse) e talaltra incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una rivolta contro i secoli di colonialismo e che nasca dall'interno delle varie realtà nazionali. Nulla di tutto ciò risponde a verità ci dice il regista: siamo di fronte a un'oppressione che arriva da fuori e prende a pretesto una supposta fede per sottomettere intere popolazioni. Non resta allora alle nuove generazioni che fuggire come gazzelle dinanzi a belve assetate di sangue infedele oppure, come ci viene proposto in una sequenza al contempo di grande forza ed eleganza, di continuare a giocare una partita proibita. Anche se non c'è il pallone.

Giancarlo Zappoli - mymovies.it


 



promo

Non lontano da Timbuktu, ora governata dai fondamentalisti islamici, Kidane vive pacificamente tra le dune con la moglie Satima, la figlia Toya e il pastore 12enne Issan. In città, la gente soffre impotente per il regime di terrore imposto dai jihadisti, determinati a controllare la loro fede. Tutto è stato bandito: la musica, le risate, le sigarette, persino il gioco del calcio; le donne sono diventate le ombre, ma continuano a resistere con dignità. Ogni giorno, nei nuovi, improvvisati tribunali vengono emesse tragiche e assurde sentenze. A Kidane e alla sua famiglia tutto questo finora è stato risparmiato, ma il loro destino cambia quando lui uccide accidentalmente Amadou, il pescatore che ha macellato "GPS", la sua amata mucca. Kidane, infatti, dovrà vedersela con le nuove leggi degli occupanti stranieri... L'ipocrisia feroce dei miliziani di al Qaeda e l'orrore della guerra civile siriana! È il vertiginoso contrasto con il sito fiabesco e il potere sadico dei figli degeneri di Allah che il regista mette in scena, dipingendo iullo schermo uno straordinario racconto sulla “banalità del male” tra le dune del Sahara. Un film (candidato all'oscar come miglior film straniero) in cui i tempi sospesi e un minimalismo passionale conducono ad un'implacabile suspense, a un grido di allarme lanciato a un Occidente spesso distratto.

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 LUX - febbraio 2015

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