Se.
La magia e il mistero del “se”. Se John Lennon e Paul McCartney non si
fossero incontrati alla festicciola all’oratorio, la musica pop sarebbe
diventata la stessa? Se Michelle Robinson non avesse accettato il vago
appuntamento formulato dal giovane di studio, Barack Obama, quest’ultimo
avrebbe trovato la disciplina necessaria a diventare presi dente degli
Stati Uniti d’America? Sui momenti in cui alcune congiunzioni astrali
riescono a funzionare si concentra tanta letteratura, fino a fame un
sottogenere: quello dei “giorni speciali”.
Un regista, l’ottimo Richard Linklater aveva già lavorato sull’argomento,
con la fortunata trilogia iniziata nel ‘95 con
Prima dell’alba
e continuata con
Prima del tramonto
e Prima di mezzanotte, protagonisti
Julie Delpy e Ethan Hawke e il loro “romance” a singhiozzi decennali. Ora
sul meccanismo narrativo della “giomata particolare” torna il debuttante
Richard Thnne, ricostruendo la volta in cui Barack e Michelle escono
insieme per la prima volta, ma con una differenza: noi sappiamo com’è
andata a finire, quale trionfale esito abbia avuto questo sodalizio
sentimentale. Quindi la sfida diventa quella di riprodurre la loro vicenda
di empatia e passione, raccontandola soprattutto come una sorgente del
futuro: probabilmente il mondo sarebbe stato diverso, se quel giorno non
fosse scoccata la scintilla giusta.
Siamo nel 1989: Barack (Parker Sawyers) guida una carretta con un buco sul
pavimento e ascolta Miss You Much di Janet Jackson dall’autoradio.
Michelle (Tika Sumpter) si prepara nel suo appartamento del South Side di
Chicago e si affanna a spiegare ai genitori che il suo non è un
appuntamento romantico, ma solo un pomeriggio con un piacevole fratello
nero conosciuto sul posto di lavoro. Comincia così Ti amo presidente e,
con un tocco d’inconsueta delicatezza, seguono 80 minuti di chiacchiere
casuali, conversazioni impegnate, fasi di studio tra due brillanti
personalità, con un affettuoso zigzagare in una Chicago non convenzionale.
Michelle domina, è lei la più evoluta e la più matura: non a caso nel loro
ufficio legale è la superiore di Barack, oltre che l’unica donna
afroamericana. I due vanno a una mostra all’Art Institute, dove sono
esposte le opere “jazz” del pittore nero Ernie Barnes, poi al momento di
pagare per il cibo dividono la spesa, quindi entrano al cinema dove
proiettano
Do The Right Thing, il film di
Spike Lee che risolleva la questione della pacificazione razziale,
mangiano un gelato e si scambiano il primo bacio. Sawyers è molto cool,
mentre fuma le sue sigarette e somiglia al giovane Obama. La Sumpter, con
già indosso quei colori inconsueti che avrebbero scioccato gli specialisti
in first ladies, somiglia meno a Michelle.
Ma la coppia ha una chimica e la ricostruzione sprizza romanticismo e una
specie di suspense: tutto va bene, anzi, nel migliore dei modi, eppure il
primo approccio è così delicato, si può guastare per un nonnulla, bisogna
stare attenti. Si seguono con palpitazione le prime schermaglie, poi ci si
rilassa: il contatto è stabilito, i due si sono capiti, l’attrazione
reciproca si vede da lontano e, diamine, hanno la vita davanti. Insieme,
faranno grandi cose.
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“Noi
due non abbiamo niente da dirci”. Incomincia così la storia di Barack
Obama e Michelle Robinson, all’inizio di una giornata estiva del 1989 a
Chicago. A pronunciare la frase, per nulla profetica, è lei, avvocato,
designata tutor di lui dallo studio legale dove il futuro presidente degli
Stati Uniti, fresco di laurea ad Harvard, deve far pratica. E incomincia
così anche il film,
Ti amo Presidente,
del trentunenne attore, produttore e da oggi anche regista del New Jersey
Richard Tanne, destinato con fiori e colori rosa ad accompagnare di questi
tempi il passo d’addio di Obama alla Casa Bianca. In poco meno di novanta
minuti sono raccolte le dodici ore e forse qualcosa di più durante le
quali, tra un bisticcio e l’altro, una mostra d’arte, un film e
un’assemblea di periferia i due arrivano non solo a conoscersi meglio ma
anche a comprendere che i loro percorsi individuali, da quel momento,
cambieranno direzione.
Non proprio uno scontro, all’inizio, ma quasi, come nella più classica
delle tradizioni cinematografiche di genere sentimentale. Al lieve,
discreto corteggiamento di lui, Michelle oppone una difesa garbata ma
ferma, disegnando quella linea di confine che a poco a poco si assottiglia
e scolorisce davanti ad una rapida, progressiva convergenza d’interessi
sociali e culturali oltre l’evidente qualità intellettuale di quello
strano allampanato tipo “con le orecchie da Dumbo” come lei lo
definisce. Così ecco i quadri del pittore afroamericano Ernie Barnes in
pieno elogio del movimento New Negro; la riunione in un quartiere nero per
reclamare un centro sociale dove Barack s’impone con singolari doti
oratorie e politiche; quindi un drink e il cinema, a vedere il film del
quale tutti parlano,
Fa'
la cosa giusta di Spike Lee. Oramai le barriere
sono cadute e nella sera che cala ci scappa il bacio. Il futuro? È già
scritto.
Giornata intensa e morbida, scorrazzante per la città a bordo
dell’automobile giallo-pallido, sgangherata e rugginosa di Barack.
Interessante l’angolo di prospettiva: più che la distanza oggettiva
rispetto alla coppia protagonista il film sembra seguire gli eventi dalla
parte di Michelle (Tika Sumpter), anche nell’evoluzione dei suoi
sentimenti, dall’apparente indifferenza al rispetto e all’ammirazione
fino, appunto, all’invaghimento, alla “cotta”. Certo è meno girevole e più
statica la parte di lui, per la quale si privilegia una discreta
rassomiglianza fisica (l’attore Parker Sawyers in realtà è un po’ più
scuro dell’originale che i dialoghi, in maniera simpaticamente canterina,
ricordano figlio di un nero e di una bianca “come fossero Nat King Cole e
Patsy Cline”), mentre modi e portamento restano appena ingessati, magari a
favore di una vivace attività intellettuale e dialettica.
Ti amo Presidente (che in originale suona
Southside With You) vuol segnare la nascita di una storia
d’amore belle e durevole. E ovviamente, ancora prima, essere un omaggio al
Presidente americano e alla sua first lady nel momento del passaggio di
staffetta con Donald Trump nella stanza ovale di Washington. Anche per
questo il racconto che ne scaturisce non ha troppi sussulti, modellato su
una inevitabile riverenza verso quelle figure e per ciò mitigato anche
nello stile narrativo che diviene sereno, pacato, si direbbe educatamente
sussurrato.
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