Il 7
agosto del 1974 il funambolo francese Philippe Petit realizza il suo
sogno, qualcosa di impossibile, qualcosa che nessuno farà mai più. Per
quasi un'ora cammina avanti e indietro su un cavo teso tra le torri
gemelle di New York, a più di 400 metri d'altezza, senza alcuna
protezione. Lo guardano la sua donna, gli amici che lo hanno aiutato, la
polizia che aspetta di arrestarlo, la città e poi il mondo. Lo guardano le
nuvole. Philippe Petit cambia il modo in cui New York guarda ai suoi nuovi
simboli negli anni '70, li ammanta della magia dell'arte e
dell'incredibile, realizza il sogno nella terra dei sogni. Poi, nel 2001,
un incubo riscriverà quello sguardo e quello spazio, con un altro,
definitivo, "per sempre".
Ci sono due torri, due paesi e due anime nel film di Zemeckis.
C'è la Parigi della prima parte, che pare uscita da un musical di Stanley
Donen
apparso fuori tempo massimo, dove i protagonisti della storia più che
arrampicarsi sul filo si arrampicano sugli specchi per giustificare il
loro utilizzo dell'inglese, dove la finzione scolora la realtà nonostante
costumi e fotografia s'ingegnino per fare l'opposto, dove accade
esattamente ciò che non dovrebbe accadere sulla corda, e cioè che si
finge, e questo - Philippe l'ha appreso dal suo mentore Papa Rudy - questo
il pubblico lo sente.
Poi le cose cambiano, attraversato l'oceano la prospettiva si ribalta: qui
Zemeckis fa sul serio e anche questo il pubblico lo sente. Il "colpo" di
Petit diventa il colpo del regista; la posta in gioco è ambiziosa e la
tecnica è tutto. Scollati dal suolo, a partire dalla notte sul tetto, il
sogno del funambolo francese e il cinema dell'americano s'incontrano, sono
fatti della stessa materia, comandano la temporalità con le loro leggi
particolari, rubano il respiro, gelano le mani per l'emozione e per la
temperatura dell'aria del cielo all'alba.
Se nell'intro del film, Petit/Gordon Levitt rifiutava di trovare un perché
alla sua impresa, facendosi bastare il richiamo della bellezza e dello
spettacolo, in coda, al contrario, Zemeckis sembra giustificare la sua
scelta di girare The Walk col desiderio di partire da una storia vera per
parlare di un'altra storia vera, fatta anch'essa di ansia e di vertigine,
ma di segno opposto: una storia in cui l'equilibrio del mondo va in pezzi
e i corpi precipitano anziché danzare sospesi. Quello rivolto all'undici
settembre è un pensiero fin troppo evidente, per quanto reso
silenziosamente, ma anche inevitabile. "La nostra civiltà -
scriveva, all'indomani della tragedia, Paolo Lagazzi - è un sogno
sospeso a un filo sottile".
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