È
un premio meritato e importante quello vinto da Sugisball
(Autumn
Ball) come miglior film della sezione Venezia Orizzonti. Significativo
e importante per dare visibilità internazionale a una cinematografia
decisamente sconosciuta come quella estone, la quale, grazie a questo
esordio nel lungometraggio del giovane regista Veiko Ounpuu, viene
instillata di fertile e curioso nutrimento, facendosi specchio di
certe isolate realtà ai margini dei domini visivi di Russia, Germania,
Polonia. Ovviamente, siamo di fronte ad atmosfere con un carico e una
valenza emozionale siderale rispetto alla dimensione dei rapporti
interpersonali approssimativi verso cui tende sempre più la produzione
cine-televisiva aggregante e compagnona italiana (e ne sono un
balenante riferimento L’ora di punta
di
Vincenzo Marra o
Il dolce e
l’amaro
di Andrea Porporati presenti in concorso). Perciò, quest’opera
intimamente malinconica, raschia fino alla profondità delle viscere,
fino alla radice dei bisogni degli esseri umani, fino alla vergogna
della loro imperfezione, al riconoscimento delle loro carenze, alla
voragine della loro solitudine, alla nudità che scopre l’inspiegabile
e imperterrita ricerca di ogni barlume di sentimento che faccia
sentire la loro presenza. Sentimenti ingestibili, opprimenti, grigi e
squadrati come il paesaggio di cui si nutrono.
Sei persone qualunque, residenti in un’enorme periferia di
prefabbricati costruita al tempo dell’Unione Sovietica. Sei personaggi
portatori di un isolamento e un vuoto (Vuoto
è, non a caso, il titolo
del primo cortometraggio di Veiko Ounpuu) incolmabile e inesorabile,
racchiuso tra le spesse fondamenta di cemento dei palazzoni ruvidi e
gelidi dentro cui si consumano le loro vite. E’ un fallimento che non
possono combattere, contro cui ogni sorta di sforzo, di avvicinamento,
di contatto, di dialogo, risulta vano e frustrante. Rimane solo lo
sfinimento dell’esistenza, la delusione, la rassegnazione di sedersi
su una sedia di plastica posta davanti a un muro grigio e spoglio come
il cielo, con gli occhi chiusi che rimandano ogni speranza alla
sovrastante locandina di
Love Streams
di John Cassavetes. Ma c’è anche
un’apertura - non propriamente vitale ma pur sempre una spinta
risolutiva liberatoria – offerta dallo sguardo di uno dei protagonisti
verso il vuoto della visuale del suo balcone. E c’è una fondamentale e
costante ironia, che permette di eliminare l’autocommiserazione e la
lacrima. Perché è certo vera e innegabile l’insita drammaticità della
visione di questa realtà fondata su un costante sentimento di
indefinibile perdita interiore. Così come è evidente che non c’è
disperazione ma un senso critico di ricerca di una verità
inafferrabile, costantemente interrogata dai dubbi dell’esistenza. E’
possibile vivere una vita completamente priva di amore? E’ possibile
credere ancora con fiducia nella felicità condivisa? “Le strette
relazioni umane e le nostre aspettative a riguardo sono la causa
principale della nostra sofferenza”.
E nel laconico ballo autunnale delle solitudini dei suoi personaggi,
l’autore sembra davvero aver trovato un percorso per suggerci la densa
sostanza di cui è composta la vita. Una sostanza a cui troppo spesso
cerchiamo miseramente di sfuggire.
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