In un
festival che ha dato largo spazio, per la prima volta, al lungometraggio
d'animazione, in alcuni casi anche consacrato da notevoli consensi di critica
e pubblico (vedi il caso di
Il castello errante di Howl)
è passato pressochè inosservato e ignorato dalla critica un graziosissimo film
danese, presentato nell'ambito della rassegna
Giornate degli autori,
Strings
di A. Ronnow-Klarlund, autore di altri due cortometraggi
The Eighteenth (1996)
e Possessed (1999). Non resta che da augurarsi che trovi una distribuzione.
Ciò che rende affascinante ed unico nel suo genere quest'opera è che gli
attori sono marionette: non si tratta quindi di un film di animazione, ma
neppure di una ripresa di un teatrino di marionette, in quanto queste ultime,
mirabilmente scolpite nel legno, vengono filmate e fotografate dal
direttore della fotografia Kim Hattesen, come se fossero attori in carne ed
ossa, con virtuosistici movimenti di macchina e piani sequenza, con sapienti
alternanze di piani lunghi e ravvicinati, secondo quelle che sono le regole
della grammatica filmica. L'effetto ottenuto è quello di far dimenticare allo
spettatore, anche più diffidente nei confronti del
genere, la loro vera natura, permettendogli di abbandonarsi al flusso del
racconto, di soffrire e gioire con i personaggi, gratificato dalla bellezza
delle immagini. Il film è cioè una dimostrazione della potenza evocativa del
cosiddetto “effetto di realtà” che l'immagine in movimento produce.
Il plot sviluppa, in un'ambientazione fantasy, un dramma vagamente
shakespeariano: un re assassinato, un fratello diabolico, un figlio che si
mette in viaggio per vendicare la morte del padre e scopre la verità riguardo
al suo popolo oltre che, naturalmente, trovare l'amore.
I movimenti della macchina da presa ora avvolgono i personaggi, soffermandosi
sui primi piani per “svelarne l'anima”, ora li accompagnano in vorticosi
duelli o aprono al nostro sguardo scene d'insieme di furiose battaglie tra i
due eserciti rivali, il tutto con un ritmo mozzafiato degno degli effetti
speciali di un kolossal . Ma sicuramente, oltre alla indiscutibile perizia
tecnica, è da apprezzare una scelta operata dal regista a livello di racconto
e cioè quella di esibire per quanto riguarda i personaggi la loro natura di
marionette, di pupazzi cioè mossi da dei fili, fili che diventano parte
integrante della storia. Noi li vediamo, ma non vediamo mai chi li muove,
perché escono dallo schermo; possiamo solo immaginare che qualcuno in alto nel
cielo li muova e li controlli: quando uno dei personaggi muore il suo filo
principale si stacca, quando i due giovani si amano i loro fili si
intersecano. Il filo quindi sta lì per essere visto, sta lì perché fa parte
della storia così come ne fanno parte i personaggi, perché questa è una storia
di marionette e, se non fosse tale, si svolgerebbe in tutt'altro modo.
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