Finale in crescendo alla Mostra del Cinema per la British
Reinassance che ribadisce la professionalità e il gusto cinematografico
della produzione d'oltremanica, capace di spaziare su piani (e generi)
diversi, cercando sempre di imprimere un tocco di vibrante personalità
d'autore. E'
il caso di
Mojo, storia di tensioni urbane nella Londra di fine
anni '50. Il Rock'n Roll arriva anche a Soho grazie all'estro musicale
di Silver Johnny, che fa impazzire i teeneger e suscita progetti e invidie
tra i vari locali della zona. All'Atlantic Club, dove si esibisce, il
gruppo dei giovani che fanno capo ad Ezra (il gestore) non si rende conto
del dramma che sta per esplodere... Si rimane davvero spiazzati di fronte
ad una vicenda che sembra percorrere i binari dell'effervescenza musicale
di quegli anni e che sfocia invece in un film cupo e disperato. La regia
di Jez Butterworth, autore col fratello della sceneggiatura e della pièce
omonima, non ha particolari colpi d'ala, ma
Mojo, pur nell'impianto
teatrale, è incombente al punto giusto e la recitazione è
sempre all'altezza. Tra gli altri si rivede Ian Hart (Terra
e libertà) e c'è un insolito cameo del drammaturgo
Harold Pinter nei panni del cinico boss rivale.
L'atmosfera è livida, tesa anche in
Face,
di Antonia Bird (Il prete,
Una folle stagione d'amore),
che segue il convulso evolversi di una rapina nell'East End londinese.
Ritmo e angoscia in crescendo perché, per i cinque rapinatori, le
cose vanno storte e di fronte all'esiguo bottino viene meno la fiducia
reciproca. E' soprattutto Ray (Robert Carlyle, sempre magistralmente in
parte) che cerca affannosamente di ritrovare il bandolo di una situazione
e di un'esistenza consumata nell'insoddisfazione, anche politica. Alle
spalle Ray ha un passato di militante comunista, la madre e Connie, la
sua ragazza, ancora lo vorrebbero coinvolgere nelle manifestazioni, ma
lui ha rinunciato ("Loro sono più forti di noi, hanno vinto")
e il gioco al massacro della sua banda lo lascia attonito, ma non domo.
L'evolversi finale è un po' farraginoso, ma le psicologie dei personaggi
si chiudono con coerenza e l'incerto futuro di Ray e Connie(e dell'Inghilterra
proletaria del dopo-Thatcher) non lascia indifferenti.
Coinvolge, ma qui con raffinata dolcezza, anche
The
Wings of the Dove di Ian Softley, un'opera apertamente ivoriana (è
tratta dal romanzo omonimo di Henry James) che ha tra i protagonisti, nella
parte di Kate, la Helena Bonham-Carter di
Camera
con vista e Casa
Howard. Con lei Linus Roache e Alison
Elliott nei ruoli del suo innamorato (Merton) e della sua amica (Millie),
nonché‚ due presenze femminili di rango quali Elisabeth McGovern
(Susan, l'accompagnatrice di Millie) e Charlotte Rampling, la zia di Kate
(Maud). Ancora Londra, stavolta agli inizi nel novecento. Kate e Merton
si amano ma lui è un semplice giornalista, lei è affidata
alle aristocratiche cure(anche economiche) di zia Maud. Continuare a frequentarsi
equivarrebbe a perdere il posto in società e Kate non osa, soprattutto
per non rovinare il vecchio padre che gode di riflesso della sua ricchezza.
L'arrivo di Millie, una giovane americana facoltosa e irrimediabilmente
malata, offre loro una sconvolgente occasione. Millie si innamora di Merton
e Kate spinge il suo grande amore tra le braccia dell'amica, pronta a riprenderselo
vedovo, ricco e rispettabile. Il tutto si compie in una struggente vacanza
a Venezia: la forza dei sentimenti e l'ineluttabilità della morte
si confrontano con l'inaspettato evolversi degli affetti reciproci. L'animo
old english style si lacera tra sentimenti e dignità e il nuovo
cinema britannico, per mano di Softley, si riaffaccia sul mercato con splendore
di mezzi e risultati. Se
The Wings of the Dove non ha trovato posto
in concorso, potrà trovarlo forse nelle classifiche dei successi
al botteghino.
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