Una volta il peggior nemico della memoria era il tempo. Oggi è la valanga
di informazioni che a volte confonde e rimescola tutto in un eterno
presente. Su questo terreno il cinema ha ancora molte carte da giocare,
specie in paesi che con la memoria hanno un conto aperto come l'Argentina.
Il segreto dei suoi occhi,
Oscar come miglior film straniero in barba a due capolavori come Il nastro bianco
e Un prophète, è un perfetto esempio
di questo lavoro che usa con abilità i generi (poliziesco, mélo) per
scavare nella memoria.
Protagonista è il maturo Esposito (un magnifico Ricardo Darìn),
funzionario in pensione del tribunale di Buenos Aires che vuole scrivere
un romanzo su un delitto di 25 anni prima da cui è ancora ossessionato
(occhio alle date: il delitto è della primavera 1974, l'azione dunque si
divide fra quel periodo e il 1999). Cosa c'era dietro lo stupro e
l'omicidio di una giovane bellissima e senza storia? Perché né Esposito né
l'affascinante magistrato per cui lavorava e che amava in silenzio,
l'altera Irene (la toccante Soledad Villamil), riuscirono a sbattere in
galera il colpevole? E dove sarà il marito della vittima, che continuò a
cercare da solo l'assassino?
Trattandosi di anni 70 e Argentina, scatta l'associazione più ovvia:
giunta militare, desaparecidos, voli della morte. Sbagliato! Perché Peron
muore nel luglio '74, il golpe è del marzo'76, dunque la parte principale
del film si svolge nel periodo d'incubazione della dittatura. Un periodo
semicancellato dalla valanga di orrori successiva, tanto che oggi gli
stessi argentini, specie i più giovani, ne hanno scarsa cognizione.
Campanella rievoca quegli anni oscuri proiettando l'inchiesta di Esposito,
del suo aiutante ubriacone e della loro bella capoufficio, contro lo
sfondo agghiacciante di un paese che stava sprofondando nell'orrore ma non
osava dirselo. Sono gli anni in cui il Potere reclutava malviventi comuni
e la famigerata AAA (Alleanza Anticomunista Argentina) rapiva e trucidava
impunemente "sovversivi". Si dice persino che Peron sia morto per mano di
uno di questi delinquenti, guardia del corpo e amante di sua moglie
Isabelita (a questo allude una scena del film, da non svelare). Campanella
è bravissimo a evocare tutto questo giocando sulle atmosfere, gli uffici
divorati dalle scartoffie, il collega improvvisamente e apertamente
minaccioso, le scene madri centellinate con maestria (c'è perfino un
imprevedibile momento "hard"). Qualcuno non gli perdonerà l'epilogo a
sorpresa o l'addio alla Dottor Zivago. Ma basterebbe la scena
dell'ascensore a riconciliarci con un cinema insieme tradizionale e
potente. Dopo tanti "cattivi" da 007, avevamo dimenticato cos'è la paura
al cinema. Campanella ce lo ricorda con schietta brutalità. È una lezione
anche questa. |