Nell’ultima
edizione della mostra del Nuovo Cinema di Pesaro
è stata dedicata un’intera retrospettiva ad Arnaud Desplechin. Per chi ha
avuto la fortuna di esserci è stata l’occasione migliore per scoprire le opere
di un regista singolare e di valore, con alle spalle una buona esperienza
(cinque lungometraggi, il primo dei quali del ’92), e con una particolare
predilezione per una narrazione fervida e serrata.
Rois et Reine
è l’ultima sua fatica, un’opera duplice, per costruzione e intenti, e
difficoltà. Due storie divise - così come i due protagonisti, Nora e Ismael –
che seguono percorsi differenti e si incontrano i soli due momenti. Nel film
seguiamo parallelamente la storia di Nora e del suo ex marito Ismael, da una
parte il dramma della donna alla ricerca di un uomo che la possa soddisfare,
dall’altra le avventure strampalate, grottesche del violinista Ismael. Due
registri diversi, ma non gli unici: si mescola di tutto nel film, e si possono
trovare situazioni agli antipodi, il dramma, la comicità, l’illusione, la
frustrazione. La regina è ovviamente Nora - Emmanuelle Devos, attrice
carissima al regista e presente in ogni suo film – stentata e trattenuta in un
perenne sorrisino, egocentrica, tuffata nei ricordi dai cui non riesce a
sbrigliarsi, morbida e vissuta, che cerca di orchestrare la propria vita tra
sé, il figlio, il padre morente (Maurice Garrel, padre di Philippe) per cui
nutre un controverso rapporto di amore e odio. I re sono i quattro uomini che,
come dice Nora alla fine, ha amato nella sua vita: il padre, che le rivelerà
attraverso una lettera la pessima considerazione che ha di lei, l’amante morto
che le ha dato il figlio, e l’ex marito. Il dramma di Nora (forse un rimando a
Casa di bambola di Ibsen?) non viene reso con profonda drammaticità,
Desplechin opta per una soluzione molto più originale, cadenzata da un ritmo
interiore, che può essere dei personaggi stessi (in particolare si veda la
frenesia dell’artista pazzo) e della musica così come della macchina da presa,
mobile, slanciata, modulata nell’aria. Ismael corre sempre, anche quando è
fermo sembra in costante movimento, paradossale, libero e saggio; l’opposto di
Nora. Affronta la realtà con gli occhi di chi non vuole soffrire e viene
rinchiuso in un ospedale psichiatrico, per il suo modo di fare
incomprensibile. Se ne va e promette ad una ragazza con i segni dei tagli sui
polsi di “raccontarle le cose vere che accadono fuori”. Non accetta
l’affidamento da parte di Nora del figlio perché “non potrebbe fare niente
per lui”, pur amandolo come fosse il proprio. C’è una sottile crudeltà
nello sguardo di Desplechin: non apprezza i suoi personaggi dal principio, per
il loro ruolo, ce li mostra con le loro sfaccettature, i loro sentimenti.
Perché è di sentimenti che si parla, e dell’ amore, anche se la maniera non è
convenzionale. Da un parte Nora, chiusa in sé, dalla sua esistenza, quasi come
se stesse implodendo, dall’altra Ismael, che protende verso l’esterno, alla
continua ricerca del nuovo, una perpetua esplosione. Si sente la devozione
dell’autore per la Novelle Vague (Truffaut prima di tutto), se ne avverte lo
spirito e la passione, mista alla New Hollywood degli anni ’70 e ’80 – del
resto non potrebbe essere diversamente per un giovane cresciuto in quegli
anni. Desplechin scava in profondità, lavora sulle espressioni e rappresenta
un mondo palpabile, controverso, critico, inesauribile. È difficile
afferrarlo, smonta, corre, dice. Dice tanto. Sente il bisogno di stimolare
l’intelletto. E ci riesce benissimo.
|