Due
giovani donne eccezionali per indipendenza, per ardore erotico e per
pensiero libero, Sabina Spielrein, psicoanalista russa, e Frida Kahlo
,
pittrice messicana. Due personaggi destinati a incontrare le grandi forze
del Novecento (psicoanalisi, rivoluzione russa, stalinismo, nazismo) e i
grandi personaggi di quel secolo (Jung, Freud, Troskij, Picasso). Due
testimoni dirette del modo in cui le donne importanti, appassionate e
ricche di personalità venivano considerate (come oggi, del resto):
presuntuose, scocciatrici, eccessive, fastidiose. Due film che arrivano
contemporaneamente nei cinema per raccontare la loro vita.
Prendimi l'anima
di Roberto Faenza, film intelligente e distante con un titolo bellissimo e
vago (l'anima?), racconta dell'ebrea russa Sabina Spielrein, nel 1904-1905
paziente e poi amante di Carl Gustav Jung a Zurigo, allieva di Freud e poi
psicoanalista e pedagoga a Vienna, partecipe a Mosca nel 1923
dell'esperienza rivoluzionaria di un asilo libertario, vittima della
repressione di Stalin, trucidata dai nazisti nel 1942 insieme con le
proprie figlie e con molti correligionari nella sinagoga della città
natale Rostov sul Don. Il film segue parallelamente le ricerche compiute
su Sabina da una studentessa e da un professore contemporanei, e la
vicenda di lei: i due elementi non risultano sempre armonizzati né
apparentemente necessari, a volte si ostacolano a vicenda più che
completarsi, imprimendo alla storia un ritmo affaticato. Prendimi
l'anima è centrato sul legame tra Jung e Sabina Spielrein, che fu la
prima persona con gravi disturbi mentali curata dal grande allievo di
Freud con i metodi freudiani dell'analisi dei sogni e delle libere
associazioni, in un ospedale psichiatrico, il Burghölzli, che usava invece
sistemi violentemente repressivi. La paziente s´innamorò del medico e il
medico della paziente (transfert, controtransfert): ma Jung non volle
rinunciare per lei alla propria famiglia, né alla propria rispettabilità
sociale e, con un comportamento classico nel passato e spesso nel
presente, pose fine alla relazione, mentre Freud indirizzò la ragazza
esclusivamente agli studi. Il film è molto interessante e ben fatto.
Magari la verità storica non viene sempre rispettata, magari il poliziotto
di Stalin appare un po' burattinesco: ma sono bellissime le scene d´amore,
la grande scena di massa alla stazione di Rostov con sovietici e tedeschi
che alternativamente si fronteggiano, l'alto livello internazionale della
realizzazione...
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Quella
di Sabina Spielrein, la prima paziente trattata con metodo freudiano dal
giovane Carl Gustav Jung, che s'innamorò, ricambiata, del suo analista, ne
divenne l'amante, ne fu poi abbandonata per evitare lo scandalo e, tornata
nella nativa Russia, lavorò in un asilo applicando metodi pedagogici
rivoluzionari, è una storia vera. Una di quelle "storie non ufficiali" che
col trascorrere dei decenni reclamano la vita (Sabina, dopo che il suo
asilo fu chiuso da Stalin, fu uccisa dai nazisti nel 1942). Peccato che in
Prendimi l'anima, il film che ne ha tratto Roberto Faenza dopo anni
di ricerche, sia proprio la vita a mancare. Costellato di carrelli
roteanti, flashback (la storia della Spielrein é raccontata attraverso le
indagini di una giovane ricercatrice), immagini flou, libere associazioni
(il cerbiatto/la donna, la muta dei canili nazisti), Prendimi l'anima
appartiene alla categoria del cinema vecchio che spaccia il kitsch per
arte e cultura. Non è un problema di intenti e di contenuti (entrambi
onorabilissimi), ma di linguaggio cinematografico, dove la supposta
eleganza della ricostruzione, l'ansito dei protagonisti, lo spudorato
movimento di macchina enfatizzano sullo schermo i sentimenti dei
personaggi e nostri. Immersi nei cliché, sentiamo quello che vediamo,
senza uno sprazzo di problematica originalità. E questo non è esattamente
un bel servizio nei confronti della tormentata eccentricità dei personaggi
raccontati. Molto "arty", Prendimi l'anima è l'ennesima
dimostrazione dei danni fatti al nostro immaginario dalla fiction
televisiva.
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Ritratto
etico, professionale ed emotivo di Sabine Spielrein. Non vi dice niente il
nome? Ma allora è un motivo per vedere il film di Faenza, un po' ingessata
tranche biografica della ricercatrice che sperimentò una pedagogia
infantile di derivazione psicanalitica, aprendo un celebre "asilo libero",
chiuso in pochi mesi dal regime stalinista. La Spielrein incominciò come
paziente di Jung, di cui finì irrimediabilmente innamorata e
irrimediabilmente respinta, al punto che Jung, complice Freud, occultò
sempre la sua ricerca. L'amore di Sabine per Jung, travolgente e
liberatorio, è la parte più riuscita e coinvolgente, anche per l'intensa
dotazione emotiva dell'attrice protagonista. Cadendo nel tranello della
compassione, invece, il finale assomiglia più a un santino che alla
cronaca di un'altra tortura ebraica, per mano sovietica, e una tragica
morte, per mano nazista. Faenza cerca di attualizzare una trentennale,
accurata e meritevole ricerca, ma lascia l'impressione che la discussione
sia più interessante del film.
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