Davide ha quattordici anni e non è un adolescente come gli altri. C’è qualcosa in lui, nel suo aspetto, che lo fa somigliare a una ragazza. Davide ha quattordici anni quando scappa di casa. Il suo istinto, o forse il destino, lo porta a scegliere come rifugio il parco più grande di Catania: Villa Bellini è un mondo a parte, che il resto della città fa finta di non vedere. Il mondo degli emarginati, a cui appartengono anche La Rettore e il suo gruppo di amici, coetanei di Davide e come lui scappati dalle rispettive famiglie. Per loro la vita di strada è una sfida continua alle convenzioni, ma soprattutto l’affermazione della propria diversità. I piccoli furti e la prostituzione sono il prezzo da pagare. Quando Davide viene accettato in quella famiglia allargata, il passato da cui stava fuggendo sembra svanire definitivamente. Ma non è così. I ricordi della sofferenza vissuta in famiglia, segnata dalla presenza di un padre violento e di una madre amorevole ma inerme, riemergono uno dopo l’altro, così dolorosi che in confronto le avventure di strada sembrano quasi un gioco. Fino a quando il passato irrompe nel presente, e a Davide tocca la scelta più difficile. Di fronte alla quale si trova, questa volta senza possibilità di fughe o rinvii, da solo. Ispirato alla vera storia di Davide Cordova, in arte Fuxia, drag queen di Muccassassina, storico locale di Roma, la pellicola vuole raccontare l’emancipazione e la formazione di un adolescente. La regia dell’esordiente Sebastiano Riso non abbandona mai il protagonista, “pedinandolo” tra le cose che lo fanno soffrire per comprendere al meglio il suo punto di vista, ma mantenendo anche una certa forma di pudore e allontanando lo sguardo della macchina da presa quando la violenza irrompe nella vita di Davide. |
...Fin dall’inizio
ero consapevole che nell’affrontare questo tema avrei dovuto confrontarmi
con il mio passato (ponendo domande a me stesso: come avevo vissuto quell’età
così delicata, quando cominci a chiederti quale sarà il tuo posto nel
mondo?), ma anche con la mia esperienza di spettatore. C’erano, a
indicarmi la strada, film che mi avevano cambiato, e che avevano lavorato
dentro di me, per farmi diventare quello che sono oggi. Autori come
Rossellini, Truffaut, Tarkovskij, Gus van Sant, e i loro piccoli eroi,
dall’Edmund di Germania anno zero ad
Antoine Doinel,
da Ivan all’angelo biondo di Elephant, erano lì a testimoniare che se si sceglie un
adolescente come protagonista del proprio film, bisogna essere “follemente
sinceri”, come Truffaut stesso scriveva in una sua lettera. Follemente
sinceri significa per me non usare trucchi né manierismi. E significa
avere rispetto per l’attore che sta di fronte alla macchina da presa, che
nel mio caso – come negli esempi illustri che ho appena elencato – per la
prima volta si trovava nel mezzo di quello strano mondo parallelo che è un
set cinematografico. Sulla base di questa duplice convinzione, la
sincerità e il rispetto, ho scelto uno sguardo preciso, che non
abbandonasse mai il protagonista, che lo tenesse sempre dentro
l’inquadratura, e lo seguisse (o forse, per usare una parola cara al
neorealismo italiano: lo pedinasse) dappertutto, senza arretrare di fronte
a nulla. Quello che vedeva lui, quello che lo faceva soffrire, dovevo
vederlo anche io, e doveva vederlo lo spettatore, e con lui dovevamo
soffrire, per poter veramente comprendere. Ma oltre a questo c’era il
rispetto, e una certa forma di pudore che a mio avviso diventa sempre più
importante in un mondo che ha perduto il senso della vergogna, e si ciba
di immagini come in un banchetto dalle portate eccessive. Il pudore mi ha
tenuto a distanza in alcuni momenti del film, uno in particolare, quello
in cui Davide – il nostro piccolo eroe – viene violentato. Avrei potuto
mostrare quella scena così com’era, brutalmente, senza mediazioni. Forse
avrei seguito più da vicino il comandamento di Truffaut. Ma in quel caso,
pensando a Godard, quando scrive che “ogni carrello è una questione di
morale”, ho capito che dovevo fermarmi, che dovevo girare attorno a
Davide, senza sfiorarlo mai, invece di stargli addosso, in quella stanza
dove avveniva la violenza, perché altrimenti anche io sarei stato violento
nei suoi confronti, anche io mi sarei approfittato di lui, usandolo al
solo scopo di scandalizzare. Per lo stesso motivo, mettere tra me e lui
una piccola distanza che in realtà aumentava lo spazio della tenerezza, ho
usato sempre, dal primo all’ultimo minuto del film, la macchina a mano
evitando di incollarmi al suo volto, preferendo spesso i campi medi ai
primi o ai primissimi piani, e un montaggio con pochi stacchi, che
riproducesse il più fedelmente possibile il ritmo e il tempo della vita,
senza forzature. |
Sebastiano Riso |
LUX - maggio 2014 |