Perché Pinocchio? Torna, con il film di Benigni, la domanda sulle istanze artistico-commerciali di un’opera/prodotto cinematografico, ma si ripresenta in una situazione paradossale poiché le risposte in realtà sembrano essere già state date: il Pinocchio di Collodi risulta (incredibile!) il libro più venduto nel mondo dopo la Bibbia, Roberto Benigni macinava da tempo l’idea (già accarezzata da Fellini) e la sua vocazione a portarlo sullo schermo è stata strombazzata ai quattro venti (massmediali) sulla base del curriculum di un personaggio che infervora schermi e teatri con la sua irruenza e la sua arguzia toscana, che frequenta e rivitalizza gli atenei declamando Dante, che ha avuto una fondamentale esperienza felliniana (La voce della luna) e che a livello registico ha amalgamato (collodianamente) la trasgressività del Piccolo diavolo e l’afflato umanitario di La vita è bella.
Eppure
proprio nelle premesse si esalta e si illanguidisce questo
Pinocchio
che parte alla grande e
poi sbiadisce tra lussureggianti “magie” di colori e ambienti. Le
prime scene restano memorabili. La carrozza trainata dai topini bianche
e la fata turchina che enuncia il monito essenziale “dare allegria
è la cosa più bella che si possa fare al mondo”, tonalità e atmosfere
oniriche… Poi la folgorante sequenza del tronco che impazza per le
strade del paese fino a sbattere contro la porta di mastro Geppetto.
Poi… Poi dal cinema (quello vero che inventa, inebria, emoziona) si
passa allo spettacolo raffinato, autoriale e lezioso, ad un’ispirata
regia teatrale che “vuole” farsi cinema con tanto di
scenografie fiabesco-liberty (la dedica a Danilo Donati è doverosa),
abbaglianti paesaggi e onirici quadri flou nella suggestiva fotografia
di Dante Spinotti, l’accattivante (e felliniano) accompagnamento musicale
di Nicola Piovani. Ma che resta solo trasposizione corretta, patetica
esibizione “buonista” su pellicola, vogliosa di accontentare “testo”
e pubblico (non è banale dietrologia quella che ha tirato in ballo
discorsi di globalizzazione cinematografica, di compromesso realizzativo
legato alla Miramax hollywoodiana e alla Medusa di Berlusconi: l’ansia
di popolarità a 360°, il culto della persona, anche artistica, gioca
dei brutti scherzi!)
Ma il vero fascino
sta in
quel tronco che si trasforma in burattino di legno, che a sua volta
assume sembianze umane. Il
Pinocchio
di Benigni è Benigni e basta. Un grande, eclettico Benigni, ma pur
sempre solo un attore che interpreta con straripante personalità una
personaggio famoso e che costruisce un film
monocorde, ove riesce a trovare una dimensione sublimante solo nella
bagarre multicolore del teatro di Mangiafuoco e nella finezza dell’ombra
che suggella il ridimensionamento reale del personaggio fantastico.
Ma che, per il resto, rimane amabilmente uguale a se stesso. ezio leoni La Difesa Del Popolo - 20 ottobre 2002 |