Quattro sono gli ingredienti che hanno decretato
il successo di
Philadelphia: il tema "sociale" dell'AIDS,
l'accorata interpretazione di Tom Hanks, il toccante commento musicale,
l'indiscussa abilità registica di Jonathan Demme (Il silenzio
degli innocenti).
C'erano già stati altri film che avevano indagato sul trauma
civile dell'AIDS (se possedete un VHS visionatevi
Che mi dici di Willy?
di René Norman), ma con Philadelphia è proprio
la grande industria di Hollywood che affronta l'argomento, senza ambiguità
eppure senza crudezze, con un gran senso umanitario ed una morale di
solidarietà encomiabile anche se, diciamolo, spesso debordante
nel patetico. Ma il racconto, scritto da Ron Nyswaner, è in ogni
caso incisivo: fin dalle prime immagini, con la macchina da presa che
s'insinua con taglio da reportage nelle strade di Philadelphia, con
la gente che saluta come in un filmato amatoriale (mentre la colonna
sonora sfodera
il brano vincente, Streets of Philadelphia, di Bruce Springsteen),
Demme vuole comunicarci la sua vicinanza alla realtà sociale
che descrive, alle problematiche che toccano i singoli, ma che coinvolgono
nella loro drammatica casualità un'intera generazione.
Il
caso di Andrew Beckett (Tom Hanks, finalmente al meglio, dopo una carriera
cinematografica - da
Splash
a
Insonnia d'amore
- spesso melensa e monocorde) è emblematico: un avvocato di successo
estromesso dai soci anziani dello studio, apparentemente per un calo
di efficienza, in verità per un black-out totale di civiltà
di fronte al manifestarsi del morbo.
Nella causa di risarcimento, che costituisce la spina dorsale della pellicola,
ciò che conta non è solo la vivace difesa dell'avvocato di
Beckett (Denzel Washington), che deve prima di tutto superare le proprie
contraddizioni nel focalizzare la questione, e neppure il monito di un
altro malato nel suo dichiarare "non sono colpevole, non sono neppure
innocente, sto solo cercando di sopravvivere", bensì la
"testimonianza" del protagonista, costretto a vivere il proprio
inesorabile calvario di fronte all'ignavia dei pregiudizi ed alla devastazione
della malattia.
Il verdetto del processo vedrà la sua sedia vuota mentre l'intimismo
di una nuova ballata (stavolta a firma e voce di Neil Young) accompagnerà
nel finale il raduno funebre per le esequie dell'amico scomparso. Per dare
un ulteriore colpo al muro dell'indifferenza e sintonizzare anche lo spettatore
meno partecipe su una frequenza di doverosa fraternità. |