Nell’ultimo
scorcio balneare di settembre, la tredicenne Pauline (Amanda Langlet) e la
bella zia Marion (Arielle Dombasle) intrecciano amori e chiacchiere,
sempre sull’amore, in un piccolo gruppo di amici che comprende un
romantico insegnante di windsurf, un infaticabile tombeur de femmes, un
coetaneo di Pauline e una frivola ragazzotta. Terzo episodio della serie
COMMEDIE E PROVERBI, porta a epigrafe l’affermazione di Chrétien de Troyes:
«Chi troppo si danneggia». Una deliziosa commedia girata in stato
di grazia che senza alcuna morbosità porta in scena l’acerba freschezza di
un'educazione sentimentale. |
Tutti
i personaggi - adorabili intellettuali dall’abito casual, ma un po’ dandy
- si ostinano in qualche amore, in qualche strategia, in qualche fallace
ipotesi, ma soprattutto si ostinano a parlarne e a parlarcene, come se il
desiderio potesse, attraverso la parola, tramutarsi in realtà. Dediti alla
«fantasticheria e ai castelli in aria» come recita il proverbio iniziale
di Le beau mariage, i personaggi si dedicano all’ostinata enunciazione dei
propri desideri e delle proprie personali ideologie. In campo
sentimentale, ogni dichiarazione d’intenti si rivolta contro chi la
pronuncia. «Je vais me marier» ripeteva Sabine in Le beau mariage,
allontanando così da sé ogni possibilità di riuscita; «Je veux tomber
amoureuse», pronuncia Marion in
Pauline à la plage,
con la stessa ostinazione, durante quegli incontri con gli amici che si
trasformano, immediatamente, nella messa in scena consapevole dei diversi
movimenti dell’economia sentimentale. In una dichiarazione di molto tempo
fa, Rohmer aveva detto: « i personaggi dei miei film partono sempre da
una idea forte e il finale si rivolta contro di loro. Cioè si conclude su
una disillusione».
È sorprendente come la «classicità» di Rohmer, perlomeno nell’ambito del
«discorso amoroso», sembri capace di virare verso una lucidissima
contemporaneità d’analisi dei comportamenti: i personaggi che abusano
della parola come mediazione conoscitiva verso quell’oggetto invisibile e
inavvicinabile che è l’amore, alludono, è vero, al vizio intellettuale,
ma, soprattutto, fungono da pedine simboliche di un sottinteso gioco
generazionale […] Si parla di noi, insomma, e dei nostri ultimi dieci anni
di vita. |