Il
cinema amaro e sornione di Pavel Lounguine (Taxi Blues – 1990)
con gli anni si è fatto sempre più cupo e incombente. Da Luna Park
(1992) a Oligarkh (2002) la cruda realtà sociale della Russia
era stata messa a nudo da racconti metaforici di forte impatto. Ora
con
Ostrov–The Island
la violenza si fa pretesto per intessere un’avventura dell’anima
intrisa di uno sconvolgente senso religioso, di un’ansia di redenzione
interiore legata a reconditi rimorsi.
Nella comunità monastica, che vive isolata su un’isola del Mare
Bianco, Anatoly è considerato uno “starets” (quasi santo) e la forza
della sua saggezza e della sua preghiera sono la chiave di volta per
il dolore di quanti chiedono il suo conforto. Non solo illuminanti
consigli ma veri miracoli quelli che questo vecchio, sporco e
ieratico, riesce a dispensare. Gli altri monaci subiscono, ora di buon
grado ora con fastidio, la sua personalità, le sue bizzarrie. Anatoly
purifica il suo vivere abitando solitario in una catapecchia,
trasportando carriole di carbone, dormendo per terra scaldandosi al
fuoco di una stufa; soprattutto pregando, chiedendo venia per i suoi
peccati, recitando con fervore passi della Bibbia.
Il tocco metafisico di
Ostrov
ha un indiscusso
fascino dostojevskiano e la cappa di tormentata spiritualità si
compenetra con una memorabile suggestione figurativa: i colori freddi,
lividi (quasi virati un bianco e nero in alcuni stralci) che avvolgono
il peregrinare di Anatoly trovano parentesi di calda luminosità nei
momenti delle celebrazioni religiose. Il santuario ortodosso, con la
sue icone sgargianti alla vivida luce delle candele, lascia presagire
la trascendente liberazione sui cui solo chi ha fede nella fede può
contare. |
ezio leoni - Il Mattino di Padova 10 settembre 2006 |