Lo stile, i colori, l'uso degli attori sono completamente diversi, ma vedendo
L'anglaise et le duc di
Eric Rohmer
vengono immediatamente alla mente Rossellini e il suo film su Luigi XIV. In comune c'è un senso alto del valore pedagogico del film storico, che non rinnega affatto la dimensione cinematografica, ma la usa con lucidità per avvicinare il passato al presente. E paradossalmente, ma non troppo, per Rohmer avvicinare significa allontanare, fare sì che i personaggi ci appaiono per quelli che sono, uomini e donne lontani da noi, con il loro modo di muoversi, di parlare, di vestire. Uno degli errori dei film storici è quello di usare nel racconto il tempo presente, Rohmer, invece, racconta per così dire con l'imperfetto, con un c'era una volta, che non sa di fiaba, ma di vicende ormai passate. Questa è la forza del film che Rohmer ha costruito partendo dalle memorie di Grace Eliot, una inglese che è stata amante di Giorgio IV e poi del Duca di Orleans. Le memorie (pubblicate ora in italiano da Fazi) furono ritrovate ad ottocento inoltrato, ma dovrebbero essere state scritte nel 1803, quando Grace Eliot era ormai al sicuro in Inghilterra. In quattro quadri, Rohmer fotografa l'evoluzione rivoluzionaria dal 1790 al 1793, e quindi l'evolversi politico dalla moderatezza al terrore, il tutto attraverso i dialoghi tra Grace e il Duca di Orleans, non più amanti, ma fedeli amici. Lei è realista, lui rivoluzionario, e nel loro parlare pacato scorrono i grandi temi della rivoluzione: le speranze liberali, il tradimento del re, la condanna a morte, il terrore, Robespierre. Sullo sfondo vi è una Parigi dipinta fedelmente seguendo lo stile pittorico del tardo settecento, con già un eco di romanticismo. Per la prima volta in un film i personaggi si muovono all'interno di veri e propri quadri, che non vogliono ingannare l'occhio con l'illusione della realtà, eppure, come è regola per i vedutisti settecenteschi, sono fedeli alla realtà dell'epoca. Rohmer torna ad usare la camera fissa, torna quasi ad un cinema delle origini, per restituirci il senso della distanza, una dimensione storica che sfugga all'appiattimento. Ma lo fa senza pesantezza, con una felicità di dialogo che richiama i suoi film sulla realtà contemporanea senza però imitarli. Spesso gli attori, la parola, sono l'unica cosa mobile sulla scena, eppure basta per realizzare un film che è tutt'altro che teatrale, è solo un cinema diverso, nuovo e antico insieme, che rimanda a Griffith e Murnau, autore prediletto di Rohmer, ma utilizza tecnologie digitali raffinatissime.
Non è il solito Rohmer, questo è vero, ed è proprio questa capacità di rinnovarsi, di tornare ad girare un film ambizioso e costoso, dopo tante storie minime girate con tecnologie povere, a sorprendere e stupire. Come se il grande regista francese fosse riuscito a rigenerare il suo linguaggio conservandone inalterata la qualità essenziale, e cioè quella facilità del comunicare senza mai banalizzare che è dono raro e prezioso. |