La
proverbiale laconicità dei Finlandesi, anziché motivo di autoironia
come in Kaurismaki,
diventa in questo film elemento determinante ai fini della narrazione,
ma anche delle scelte stilistiche del regista, il giovane Valkeapaa,
autore di altri due cortometraggi e proveniente dal mondo della
grafica e del design.
Il protagonista è infatti un bambino muto, che vive con la madre in
una misera fattoria tra i boschi nella parte più remota e selvaggia
della Finlandia, le sue giornate sono scandite dalle visite in carcere
al padre, un uomo violento e dal tempo trascorso in mezzo alla natura,
con l’unica compagnia di un cavallo selvaggio. Fino a che un
misterioso visitatore, un giovane uomo ferito, viene accolto in casa
dalla madre. È superfluo dire che questo sconvolgerà le loro vite.
La quasi totale assenza di dialoghi è giustificata a livello narrativo
dal mutismo del bambino, sul quale è focalizzato l’intero film,
costruito in modo tale che noi vediamo e proviamo ciò che vede e sente
il protagonista, sempre in scena: è attraverso i suoi occhi e i suoi
sensi che noi spettatori siamo introdotti nel suo mondo, in cui
convivono amore e crudeltà, paura e mistero.
“Volevo realizzare un film che desse al pubblico lo spazio per
provare esperienze e interpretazioni personali, permettendo a ogni
spettatore di entrare nelle storia e ricrearne il mistero. Un film nel
quale il mondo è re-immaginato attraverso le azioni e le percezioni
del protagonista – un mondo incredibilmente estraneo e al tempo stesso
profondamente familiare, immutabile e nuovo.”
Un film dunque impressionista, con un racconto che sembra svilupparsi
per frammenti, pretesti per esprimere sensazioni, emozioni. L’autore
dichiara infatti di non essere partito da una sceneggiatura
predefinita.
Sicuramente importante a questo scopo è il ruolo svolto dalla colonna
sonora, in cui suoni e musica si fondono per creare un’atmosfera
sensoriale fortemente onirica e della fotografia magistrale che
utilizza soltanto la luce naturale per gli esterni e quella filtrata
dalle finestre e dalle fessure per gli interni, con una predominanza
di colori naturali, freddi, tendenti al blu e al marrone, in cui
spicca soltanto il rosso, che è il colore del sangue.
Anche in
Muukalainen,
come in molti altri visti in questa rassegna, il tempo rimane
indeterminato, mentre il luogo, la natura selvaggia assume il ruolo di
coprotagonista, perché il bambino ne è parte integrante ed è quando la
macchina da presa segue le sue peregrinazioni per i boschi che noi
riusciamo a leggere nel suo pensiero. Il bosco è per lui il luogo
della libertà e del mistero, mentre gli spazi chiusi lo opprimono e lo
mettono in contatto con situazioni che non è in grado di capire: il
rapporto della madre con il forestiero, i suoi incontri con il padre,
che sembrano ruotare unicamente attorno ad una misteriosa scatoletta,
il cui contenuto sembra costituire l’unico legame che lo unisce al
violento genitore.
Molti sono gli
elementi simbolici, che il regista dissemina nella narrazione: il
cavallo, il pozzo, la scatoletta, lasciandoli volutamente oscuri, così
come è piena di misteri la percezione che il bambino ha del mondo
esterno. Ma l’aspetto forse più interessante è come sia a livello
narrativo sia a livello linguistico il regista riesca a mescolare modi
e stili diversi, passando da un racconto quasi fiabesco o da romanzo
di formazione ad atmosfere da noir e alternando inquadrature che
rimandano al cinema espressionista, basti pensare alla ricorrenza del
motivo del cerchio e delle linee oblique e orizzontali, messe in
risalto dall’illuminazione fortemente contrastata degli interni, con
immagini del paesaggio fortemente evocative (a molti hanno ricordato
Tarkovskij)
e però anche con un’estetica da videoclip che si manifesta negli
inattesi primi piani, spesso sghembi, e nel ritmo del montaggio.
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