Ha
scritto Robert Brown che i film di Greenaway sono o documenti di finzioni
o finzioni di documenti.
I misteri del giardino
di Compton House,
pur assommando in qualche modo entrambi i caratteri, ci sembra partecipi
in misura maggiore al primo.
Anche se forse non varrebbe la pena di sottolinearlo, non ci troviamo di
fronte ad un film storico, con tanto di volontà «fantascientifica» di
ricostruire con buona approssimazione un passato, nella sua dinamica
sociale e immaginaria. La collocazione — nel 1694, in Inghilterra, in
ambito agrario - borghese — ci pare qui suggerita, oltre ché dal fascino
di un décor attraente anche nella sua sgradevole fisicità (si ha talora
l'impressione di percepire i cattivi odori che promanano da quei volti
incipriati e imparruccati), dall'esigenza geometrica di avere a che fare
con un ordine rigidamente codificato, quello appunto di una classe che
esce da una rivoluzione combattuta e vinta e della quale sta godendo i
privilegi.
A maggior ragione, quindi, il film è ben lontano da quella che Greenaway
chiama la chimera del realismo, un'ossessione filmica tipicamente inglese,
a sovvertire la quale interviene un dialogo sovrabbondante e rapidissimo
che, come in certi film di Mankiewicz, tende spesso più ad occultare
l'oggetto che non a chiarificarlo. Certamente più pertinente, anche se non
esaustiva, ci sembra la lettura del film come metafora del rapporto tra il
regista e la realtà, fisica e sociale. È vero, infatti, che lo strumento
usato da Neville rinvia a quello, analogo, del direttore della fotografia,
che la pretesa esattezza del disegno si scontra con l'inoggettivabilità
del reale, o, che è lo stesso, col mistero, che la funzione del
disegnatore, che inizialmente sembra arrogantemente autonoma, si rivela
poi ingabbiata in ferree determinazioni sociali, tanto da piegarsi
fatalmente alle loro esigenze. È molto probabile che Greenaway, pittore e
tecnico del montaggio, regista insieme d'avanguardia e inserito nel
mercato, abbia proiettato la propria ombra su Neville...
Ci pare eloquente, in tal senso, la definizione che il regista da della
sua opera: «a figures'- in - a - landscape - movie». In effetti,
uno degli elementi del film che colpiscono maggiormente è il rapporto
alterato tra personaggi e paesaggio. Come in una sorta di Arcimboldo alla
rovescia, le figure umane non hanno spesso altra rilevanza che quella di
elementi costitutivi di un tutto composito, minuziosamente determinato
eppure indecifrabile nella sua totalità. È la grande tradizione del
paesaggismo inglese del sei-settecento, certo, ma anche quella del
trompe-l'oeil, del landscape rifinito in ogni particolare che, magari
visto di sghimbescio, nasconde una persona o un animale, e viceversa. A
sottolineare questo concetto, in modo forse eccessivo, comunque non sempre
convincente, il regista ha escogitato la figura del mentecatto che si
atteggia a statua, che funziona non soltanto come contrappunto ironico, o
come intrusione irrazionale e «incolta» in un contesto sottoposto a
drastiche regole «civili» (significativamente, è lui a «chiudere» la
vicenda con una smorfia di disgusto di fronte all'ananas, frutto esotico
da tutti apprezzato come una raffinatezza), ma anche come simbolo vivente
dell'impossibilità della rappresentazione, di una sfuggenza corporea
parallela a quella oggettuale.
Ancora, il landscape, il giardino, rimandano all'idea del labirinto,
con tutte le sue implicazioni simboliche e psicoanalitiche, antropologiche
e alchemiche. Siamo dalle parti del Borges maggiore, quello di “Il
giardino dei sentieri” che si biforcano, soprattutto di “La morte
e la bussola”, ma anche, nelle panie della coazione a ripetere (Neville
ritorna a Compton Anstey per consumare l'ultimo atto, ma la sua potrebbe
essere una serie di incubi concentrici, il film ricominciare là dove
è terminato), abbastanza vicini a certe produzioni «dig enere» tipicamente
britanniche, leggi Hammer e antenati, come il bellissimo
Dead of night (1945), di Dearden,
Cavalcanti, Hamer e Crichton, oltre ché a
Shining di
Kubrick,
regista che è stato tirato in ballo in maniera piuttosto esterna (l'ambientazione)
per Barry Lyndon,
che assomiglia semmai a I misteri del giardino di Compton House
per il destino del protagonista, per la sua progressiva decadenza
in quanto rivelazione di umanità e «sentimento», oltre ché per un
analogo rapporto tra paesaggio e personaggi.
Piuttosto, da un punto di vista strutturale, il film, nella sua ricerca di
verità inizialmente orientata in maniera apparentemente univoca, che poi
si capovolge e viene drasticamente smentita, nella presentazione di
personaggi che vengono connotati in maniera precisa, come carnefici o
vittime, e poi ribaltano i loro ruoli, segue uno schema che ha una sua
tradizione, marginale ma consistente, che va da “Benito Cereno” di
Melville al notevole e sottovalutato
La conversazione
di Coppola, passando attraverso numerose tappe intermedie, tra le quali il
celebre Borges del “Tema del traditore e dell'eroe”. Anzi, diremmo che,
tra tutti gli esempi citati, questo è forse il più calzante, in quanto
Melville e Coppola operano il rovesciamento in modo repentino (la
scialuppa di Amasa Delano, la toilette nel motel), Greenaway divide il
film in segmenti che corrispondono grosso modo ai singoli disegni ed agli
indizi in essi disseminati, ed opera una graduale inversione di tendenza,
che parte appunto dal compimento del sesto.
Ma l'organizzazione dei materiali, percettivi e immaginari, la
differenziazione dei punti di vista, l'interpretazione dello statuto delle
cose, del loro «carattere di alterità autosufficiente rispetto all'uomo,
dal quale le separa una distanza incolmabile» (Bertetto), avvicina I
misteri del giardino di Compton House anche al clima culturale del
nouveau roman, di uno Husserl filtrato da Sartre e Merleau-Ponty,
soprattutto al cinema di Alain Resnais (per inciso, Greenaway, prima di
iniziare a girare ha voluto mostrare a tutti, attori e tecnici della
troupe,
L'anno scorso a Marienbad).
L'assimilazione di queste suggestioni si innesta però su un ceppo
tradizionalmente solido: da un lato c'è l'inguaribile romanticismo
dell'animo britannico (ricordate Losey?), dall'altro la sua refrattarietà
ad un esoterismo comunque offensivo, sia per il pubblico che per la
committenza. Sotto questo aspetto scatta veramente l'identificazione
Greenaway-Neville: entrambi, infatti, vivono la contraddizione insanabile
tra autore romantico di una finzione e finzione strutturalista di un
autore, divisi come sono tra lucidità del disvelamento e fascino della
narrazione, tra freddezza dell'enunciato e calore della partecipazione,
tra distrazione dello sguardo e attrazione dell'eros. Da questo
atteggiamento schizoide, che percorre ogni elemento della messa in scena,
dalla recitazione dello splendido Anthony Higgins alla funzionale colonna
sonora di Michael Nymann, che spazia da Henry Purcell a Philip Glass, è
nato, “rara avis”, un film classico in forme d'avanguardia o, se si
preferisce, un film d'avanguardia in forme classiche. |