Uno
dei motivi, il motivo?, per cui amiamo il cinema di Nanni Moretti
è l'ostinata istanza morale sulla quale si fonda. Fin dai tempi di
Io sono un autarchico, il cineasta si
è posto sullo schermo in una posizione centrale di incredulo, indignato
osservatore. Da un lato una società civile alla deriva; dall'altra lui,
volta a volta barricato dietro un altare o una macchina da presa,
sferzante, irritato, irritante ed egocentrico, certo: ma nel suo sofferto
mettersi in discussione, noi spettatori abbiamo sempre avvertito
un'urgenza di testimonianza per conto e a nome di tutti. Così accade in
Mia madre
(...). Aleggia in spirito il Fellini di 8 e mezzo,
ma tradotto nello stile sobrio, pudico, brechtiano/grottesco di Nanni,
(...).
Mia madre
non è un film sul lutto, è un film che sul lutto annunciato avvita una
crisi esistenziale e alla fine in qualche modo la sublima. Anche se la
storia procede volutamente sull'accumulo e non sullo scarto narrativo, a
nostro avviso al copione avrebbe giovato una maggiore incisività
drammaturgica, ma, ben sottolineata dalle note di Arvo Part e di Britten,
l'atmosfera del film resta coerentemente rarefatta, onirico-minimalista,
avvolgente. E negli occhi chiari di Margherita leggiamo intatta quell'esigenza
di autenticità che è uno dei motivi, il motivo?, per cui amiamo il cinema
di Moretti.
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Nanni
Moretti si è innamorato di una nuova parola per raccontarsi:
inadeguatezza. E in questo modo riesce a far sentire i suoi
cineappassionati più inadeguati di lui, inadeguati cioè a cogliere tutta
la meraviglia del suo nuovo film, dal titolo già pericolosamente intimo,
Mia madre;
affidando il suo alter ego alla nostra attrice più brava a esprimere
inadeguatezza, Margherita Buy, forse perché lei così si sente davvero,
malgrado, a 52 anni, sia al suo 48 film e sia ormai molto brava. Dal 2011,
dal memorabile 'Habemus Papam', si aspettava con docile ansia un nuovo
Moretti, marchio sicuro del raro buon cinema italiano, e finalmente ce lo
ha concesso: non un'autobiografia, non un caro diario, non una
confessione, ma certamente una storia autoreferenziale, negli eventi e nei
sentimenti. Non ha mai pensato di essere lui se stesso, perché da subito
voleva essere rappresentato da una donna, che certamente poteva essere un
regista meno musone e complicato di lui, e lui poteva dirigerla contando
sulla sua devozione verso il Maestro dimostrata in due altri film fatti
con lui. (...) Momenti (...) d'inevitabile commozione, sono tanti,
difficilmente ormai si provano al cinema. Ma Moretti è di quei registi e
di quegli uomini che non vogliono costringere la gente alle furtive
lacrime con facili mezzi ricattatori. E quindi il legame dolente tra la
donna ammalata e i due figli, prima in ospedale poi a casa, si accende
della bravura degli attori: la madre Ada (Lazzarini, grande attrice di
teatro), sa contenere la sofferenza e la paura, per aiutare i figli ad
accettare la sua fine; il figlio Giovanni, cui Nanni Moretti dà una
fragilità molto maschile che gli rende insopportabile il peso
contemporaneo del dolore e della professione. È lei, la figlia Margherita,
dai gesti soccorrevoli e impacciati sul corpo affranto della donna
ammalata, ad avere la forza per vivere tutto...
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