Di
fronte ad un film come
Marius et Jeanette
verrebbe voglia di parlare di "realismo poetico", ma poi ci si
accorge che quello di Guédiguian
è un cinema che fa poesia
dopo aver spurgato qualsiasi sovrastruttura stilistica e retorica, senza
per questo rinunciare a raccontare dei "contes" delle fiabe:
"Perché è vero. La vita non è così.
E credetemi, ne sono consapevole", dice il regista. Poesia lieve,
dunque, impalpabile. E' vera, consapevole del suo lirismo contaminato di
commedia. Storia di quartiere, dove c'è più Tati che Carné,
naturalmente. Con sagome che si elevano improvvisamente a figure e figure
che si scontornano di tanto in tanto in macchie sullo sfondo, in una democrazia
della messa in scena che rivela in questo autore una militanza popolare
tutt'altro che intellettualistica.
Storia d'amore tra il guardiano zoppo di un cantiere abbandonato (Marius:
uno straordinario, corpulento, garrellianamente vero Gérarard Meylan)
e una cassiera con due figli e senza marito (Jeanette: una vibrante Arianne
Ascaride); l'asse portante segue la traccia di un amore proletario ("una
storia d'amore tra i poveri, laddove non c'è veramente alcun interesse
in gioco nel fatto di vivere insieme.."), le diramazioni conducono
in direzione di un cinema capace di stare sopra e sotto le righe della
realtà, nell'interspazio del cuore che si dichiara principio attivo
del mondo dei semplici.
Colori, figure, sapori, odori, sorrisi, parole, suoni: Guédiguian
partecipa a tutto e ne rende partecipe il suo cinema, prima ancora dei
suoi personaggi. Che così sembrano allucinazioni di una fiaba proiettata
su uno sfondo di quartiere, e invece sono piuttosto delle macchie d'umanità
sulla bianca telo dello schermo. |