Un
televisore con vecchie immagini di Albert Einstein, intanto una voce fuori
campo ricorda la sua frase celeberrima «Dio non gioca a dadi con
l'universo»: così inizia
Mariti e mogli. L'inquadratura è
poco accurata, tremolante. Ha l'aria d'esser casuale. «Forse non a
dadi, - commenta Gabe, su cui si sposta la macchina da presa con un
breve movimento verso destra - ma certo Dio gioca almeno a
rimpiattino.» Subito, imprevedibile e nervoso, l'obiettivo si mette a
rincorrere Gabe e Judy: li cerca da un capo all'altro di una stanza, evita
pareti e colonne, li rintraccia in un corridoio, dietro una porta.
Arrivato su un volto, ci si sofferma ansimante e curioso, lo "tiene", lo
scruta. Ma non può evitare d'essere fulmineamente attratto dall'altro,
dalla sua voce, dalla sua presenza. E allora di nuovo parte l'affanno
della ricerca. Sul set, dietro l'operatore, stava Carlo Di Palma,
direttore della fotografia: lo guidava, ne dirigeva lo sguardo. Nessuna
(apparente) preoccupazione tecnica. Nessun controllo della stabilità della
ripresa. Anzi, quel che si voleva ottenere era una parvenza di
improvvisazione, di contemporaneità ingenua e amatoriale tra vicenda e
scelta di inquadratura. Il risultato? La macchina da presa è essa stessa
un personaggio di
Mariti e mogli: soffre le emozioni
degli altri personaggi, se ne lascia sopraffare, si rivolge a loro per
interrogarli con primi piani incombenti. La sua soggettività e la sua
emotività ci si rivelano attraverso la voluta, insistita inadeguatezza
tecnica.
Roberto Escobar - Il
Sole-24 Ore
biblioteca
di CONSELVE 2012 - Università per il tempo libero
Qualcuno ha parlato di stile documentaristico e oggettivo, come per
Zelig
(1984): non dategli proprio retta. Come da tempo accade nei suoi film
Woody Allen stempera i
contorni e il ruolo del proprio personaggio, della propria maschera. Le
sue nevrosi restano, ma perdono centralità narrativa. Ne viene così una
comicità più attenuata, talvolta addirittura marginale, ma in compenso più
sottile. «Perché non scrive più quelle storielle così divertenti?»,
si fa chiedere Gabe-Woody dalla madre di Rain. Un modo indiretto per
prendersi gioco di chi, da lui, si aspetta più conferme che novità. Il
centro di
Mariti e mogli, dunque, è disperso
e plurale. Gabe non è protagonista in misura maggiore di Judy, né Judy di
Sally o Jack, di Rain o Michael. Se un centro comunque si vuole indicare
nel film, quel centro è proprio l'occhio della macchina da presa, la sua
soggettività, la sua emotività messa a confronto con quelle di Gabe, Judy,
Sally, Jack, Rain Michael.
Il cinema di Allen è morale. Lo è non tanto per i suoi contenuti. Sarebbe
moralistico, in questo caso. Lo è invece per la sua ricerca di un punto di
vista esterno ai fatti, da cui appunto valutarli moralmente. Dopo
Crimini e misfatti
(1989), è in
Mariti e mogli
che questo riesce al meglio: il punto di vista morale (non moralistico) è
conquistato proprio dall'occhio del cinema divenuto personaggio, ed è
tenuto saldamente. Lo sguardo soggettivo della macchina da presa è triste
e insieme dolce, come la luce dorata e calda della New York fotografata da
Di Palma. Quello sguardo segue, anzi insegue gli altri personaggi: non per
giudicarli, non per colpevolizzarli. Non esiste - non esiste più da tempo,
nel cinema di Allen - la possibilità stessa di una oggettiva attribuzione
di colpa. Gli uomini vivono in un universo indifferente(Crimini
e misfatti, ancora). Il giudizio morale
non è "fondato", non è assoluto. Non è moralistico, appunto. È invece un
prodotto, molto umano, della partecipazione al dolore degli individui: è
suscitato e reso legittimo da una sofferta comprensione della loro
fragilità, della loro precarietà indifesa. Sally, frigida, fa e si fa del
male con una specie di coazione distruttiva. Il marito Jack, in cerca di
gratificazioni erotiche, s'illude di fuggire rifugiandosi in un amore
riposante e stupido. Tornano insieme quando riconoscono l'inevitabilità
del loro rapporto: accettano che ín esso la passione resti sconfitta, si
rassegnano al grigio rassicurante della vita. Judy, apparentemente
indifesa, "costruisce" la sua storia erotica e sentimentale. Un divorzio
dopo l'altro, un matrimonio dopo l'altro, non lascia scampo ai suoi
partner. Gabe, cinquantenne, vorrebbe tornare a sentire quel che non sente
più. Ci prova con Rain, ventunenne e per questo ancora spavaldamente
irrequieta, ma poi rimpiange la quieta dolcezza dell'amore perduto di Judy.
Michael cerca il sentimento assoluto, definitivo, ma si lascia condurre
per mano da un grande amore provvisorio all'altro. Chi è vittima e chi
colpevole, in questo inconsapevole ferire e ferirsi? Inutile cercare la
risposta nelle parole dei personaggi. Il film ne è pieno, ma su di esse
prevale la compassione morale dell'occhio cinematografico, la sua passione
con “Gabe”, Judy, Sally, Jack, Rain, Michael, come può condannarli quell'occhio,
sapendo che anche con loro Dio gioca a rimpiattino?