Chi è Zelig? Tutti e
nessuno. Biograficamente (?) nasce come figlio di un attore yiddish
(conosciuto per la sua interpretazione di Puck nella "versione ortodossa
di Sogno di una notte di mezza estate") e si rivela al mondo degli anni
Venti come "il camaleonte umano", un essere incredibilmente mutevole
capace di (o meglio 'costretto a') assumere le caratteristiche fisiche e
mentali di chi gli è vicino. Così Leonard Zelig è un perfetto giocatore
di baseball in mezzo ai campioni dello Yankee Stadium, un trombettista
nero in una banda di jazz, ha l'aspetto di un pellerossa tra i
pellerossa e quello di un ebreo (pizzetto compreso) tra gli ebrei, è un
grande tenore sul palcoscenico della lirica, si gonfia fino a 120 chili
vicino ad altri obesi... Diventa popolarissimo, in positivo come
divo-schizofrenico e, in negativo, come super imbroglione (più donne lo
reclamano come marito e padre dei loro piccoli), i luminari della
psicanalisi rimangono sbalorditi e disorientati (negli incontri di
osservazioni clinica il proteiforme paziente 'diventa' a sua volta uno
psicanalista), il mondo lo vede apparire e scomparire nelle trame della
storia: è accanto ad Hitler nei comizi e nelle parate del
Nazionalsocialismo, appare persino sulla terrazza di San Pietro, tra il
Papa e i cardinali...
I tentativi più avanzati di comprensione del suo caso sono le "famose
sedute della stanza bianca" in cui la dottoressa Fletcher lo
accudisce con interesse ed affetto. Si giunge ad un periodo ottimale
di miglioramento, ma il disagio del XX secolo è sempre incombente
e la ricaduta inevitabile: Zelig, prototipo umano di intima insicurezza
e di bisogno di osmosi civile, quanto abita nel mito e quanto nel
vissuto quotidiano? Realtà e finzione, spettacolo tecnicistico e problematica
sociale sono essi stessi in Zelig
soggetti mutanti: tutto girato in bianco e nero con una eccezionale
meticolosità nel far coincidere l'insieme delle sequenze (in una contraffazione
perfetta di taglio cinematografico, grana e striature della pellicola)
con i frammenti originali degli archivi dei cinegiornali, il film
si apre al colore solo per le suggestive "testimonianze"
di personaggi celebri quali Susan Sontag, Saul Bellow, Bruno Bettelheirn
e scorre via leggero e acuto in un'ora e venti di proiezione, stimolando
in continuazione lo spettatore e disorientandolo (nella linea dell'approccio
con la personalità di Zelig) per il surplus d'intelligenza e di ironia.
Il mutante
Allen
(la sua interpretazione di Zelig è per caso metalinguistica ed autobiografica?
Certo è sorprendente la sua varietà di generi da
Prendi i soldi e scappa
a Manhattan,
da Interiors
a Una commedia sexy.
E poi la dottoressa Fletcher non è forse Mia Farrow, la sua compagna
attuale?) ci dà, tra le misuratissime gags, una parabola universale
sulla crisi di socializzazione dell'essere umano, specie se riferita
allo spersonificante appiattimento computerizzato di questi anni 80.
Ma pure sbeffeggia la mitica intraprendenza nell'adattarsi dell'"american
hero" (col Moby Dick di Melville sotto il cuscino) e forse denuncia
pure le sofferenze di adeguamento della cultura ebraica Certo il prismatico
Zelig
è cinema a tutto tondo, finalizza la tecnica all'idea in una ambiguità
davvero camaleontica, si rispecchia in se stesso e nel proprio abbozzarsi
si compie: come ha asserito Pauline Kael "quando finiscono
questi deliziosi pseudodocumentari e ci si aspetta che incominci il
film, ci si accorge che quelli erano tutto il film". E retorica
chiedersi se è un pregio o un difetto? Certamente è grande cinema
d'autore.
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