Forse dobbiamo
ripensare a
Chiedimi se sono felice
come alla vetta artistica di Aldo, Giovanni e Giacomo, forse dobbiamo
rivalutarlo in toto nel panorama del cinema italiano, che stenta a far maturare
al suo interno grandi idee, ma che aveva trovato nel trio milanese una verve
comico-surreale arguta, sorridente e mai mielosa.
I dubbi (e il trapassato prossimo) sono legittimi alla luce di
La leggenda di Al, John
e Jack, tanto
atteso quanto, diciamolo pure, deludente. Anzi, potremmo azzardare che con
questa loro quarta fatica i tre (con alla regia il solito Massimo Venier)
abbiano trasformato il loro sforzo per costruire un’opera cinematografica
“completa” (in struttura e originalità) in un boomerang creativo, in un nonsence
autoriale: l’attenzione al quid diegetico, alla peculiarità dell’intreccio
(necessariamente epurato dalla consuete raffica di gag dolci-amare) lascia in
sospeso la forza comunicativa, non arriva ad imprimere il ritmo giusto alla vis
comica dell’insieme.
Paradossalmente anche la disamina critica di La leggenda di Al, John e Jack
fatica a concretizzarsi in un’analisi compiuta perché il trip narrativo è
talmente mirato alla rivelazione finale che, un po’ come sono costretti a fare
Aldo, Giovanni e Giacomo con le loro abituali battute, bisogna qui eludere molti
particolari sostanziali del racconto per non sminuire il piacere della sorpresa.
Così possiamo solo ribadire le note tecnico-produttive: che l’impegno di spesa
ha raggiunto i 20 miliardi di lire (ma già nel primo week-end l’incasso è stato
di 5 milioni di euro), che manca la (tonificante) presenza femminile di Marina
Massironi, che la vicenda è ambientata negli anni ’50, che le location sono
quelle originali di New York, che la colonna sonora gioca con brani di repertori
d’atmosfera, che il tutto si presenta come un gangster-movie in cui i tre sono
dei sicari stralunati e pasticcioni...
Ciò che impreziosisce e dà anima a La leggenda di Al, John e Jack
è la referenzialità hitchockiana che parte con la citazione de
La donna che visse
due volte (proiettata in apertura
in un drive-in) ed elabora gli archetipi cinematografici della perdita
della memoria e del flash-back menzognero. Un’idea sviluppata con
coerenza e puntiglio, ma troppo stiracchiata prima di arrivare alla
folgorazione (ciclica) conclusiva. Il repertorio di Aldo, Giovanni
e Giacomo è di una spontaneità sempre vincente, tra gesti, occhiate,
reciproche intese, ma lo status cinematografico della parodia non
è ancora del tutto nelle loro corde e senza la scoppiettante inventiva
del loro cabaret esistenziale questa nuova avventura sul grande schermo
non entra certo nella leggenda.
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