Kreuzweg - Le stazioni della fede
Dietrich Brüggemann
- Germania 2014 - 1h 47’


BERLINO 64°

Orso d’argento - miglior sceneggiatura

Premio della giuria ecumenica



 

   Kreuzweg del giovane regista bavarese Dietrich Brüggemann (36) è la storia di un’educazione ultrareligiosa. Un’altra pellicola sull’estremismo islamico? No, cattolico. Un’educazione mortale. L’abuso psicologico di una quattordicenne sullo sfondo dell’amena provincia rurale tedesca. Oggi. La camera all’inizio è fissa sul volto dell’adolescente. Con i compagni la ragazza non sta assistendo a una lezione di catechismo ma di guerra. Viene voglia, e qui il film centra l’obiettivo, di alzarsi, entrare nello schermo e strappare Maria dall’abbraccio mortale di madre, padre e di un prete delirante. In quest’ottica alla fine Maria tende alla gioia più grande attraverso il sacrificio più grande. Morire per Dio.
Dietrich Brüggemann racconta "i giorni" di Maria. Un film dove non c’è un solo momento ad alleggerire il respiro. A scuola viene isolata dai compagni per la sua ‘stranezza’ religiosa, come dice un ragazzino all’insegnante. Maria intanto non mangia più. “Chi dice a una bambina di 13 anni che a guardare bene nel cuore si trova ogni peccato possibile, commette una violenza psicologica”, così il regista Brüggermann. “Voler trasformare un bambino in un soldato distorcendo completamente l’autentico signficato delle Scritture, fa un tragico danno”. Notevole l’attore Florian Stetter nei panni del parroco. Comprensivo, suadente, di ghiaccio. Il tema dei bambini soldati è trattato con grande attenzione e abilità cinematografica. Non ci sono tracce di luoghi comuni mediatici. La camera è perfetta. Brüggemann e la sorella sceneggiatrice da bambini hanno vissuto un’esperienza simile: i genitori erano vicini a un gruppo religioso ultraconservatore. I traumi di quell’infanzia Brüggemann li elabora nel suo film. Un film forte e silenzioso come un palco di teatro prima delle prove.

Simone Porrovecchio - cinematografo.it

   Vincitore alla Berlinale del premio per la migliore sceneggiatura in un concorso peraltro sontuoso che allineava Boyhood, Grand Budapest Hotel e Fuochi d’artificio in pieno giorno (poi vincitore dell’Orso d’oro), Kreuzweg meritava di più, meritava l’Orso d’oro, perché questo è uno dei film migliori della decade. Un film bello e importante per quanto racconta e come lo fa. Per il coraggio, inaudito, di riproporre al centro della narrazione e alla nostra attenzione il sacro, il trascendente, il religioso, l’oltre-naturale. Dio. La fede. Il cristianesimo vissuto come esperienza totale e radicale in un’Europa, in un Occidente, oggi quasi completamente secolarizzati. Cioè, tutto quello che la cultura ormai dominante – quella di cui sono intrisi i media e anche le nostre menti, le nostre conversazioni, le nostre cene conviviali con amici e conoscenti e non-conoscenti – ha espunto da molto tempo quale cosa sconveniente, anche socialmente sconveniente, quale residuo di un’età oscura, quale indice di una visione povera del mondo e di bassa appartenenza (sotto)culturale. Sono laico, ma ho un gran rispetto per chi crede e, ebbene sì, anche per il cristianesimo, senza del quale noi – noi dell’occidente intendo – saremmo quello che siamo, anche i laici che siamo. Detesto le grevi e triviali polemiche antiecclesiastiche, antipapiste, contro la Chiesa troppo ricca e arruffona e corrotta, e tutto quello sparlare greve di Ior e Marcinkus, e delle scarpe Prada di Ratzinger ecc. ecc. Quell’ignobile repertorio del dalli al prete, dalli alla tonaca, dalli al papa e al cardinale, di cui sono pieni, e basta dare un’occhiata, i social media che frequentiamo. Ecco, in un mondo che oggi è questo qui, appare un film come Kreuzweg, ed è una rivelazione. Storia, sofferenza e passione di una ragazzina di anni 14 di nome Maria. Che è parte di una famiglia cattolico-tradizionalista, messa e preghiere in rigoroso latino, recupero e pratica del rito tridentino, ogni passione e ogni cedimento alla carne banditi. Un ambiente che somiglia a quello filmato in uno dei documentari migliori del 2013, Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini (lì eravamo in Texas, all’interno di una famiglia di fede presbiteriana). Si sta preparando alla cresima, Maria, dunque a diventare soldato di Cristo, ma la sua mente è tormentata dall’idea del martirio, del sacrificio di sé a Dio. Aspirazione che è stata in passato di tante sante, di tante ‘pazze di Dio’, e oggi liquidata come aberrazione psichica. Lo straordinario di questo film è che prende sul serio Maria e la sua aspirazione a un personale calvario, non la liquida trivialmente come una matta da legare, ce la racconta sospendendo ogni giudizio e standole invece vicino e facendocela amare. E anche se il regista (pure autore della sceneggiatura insieme alla sorella Anna, che pare abbia sperimentato un’educazione simile) ci mostra la durezza iper rigorista del contesto familiare e soprattutto della madre, si astiene da ogni rozza polemica antireligiosa. Il contrario di quello che aveva fatto l’austriaco Ulrich Seidl nel suo tremendo Paradiso: fede dove sbeffeggiava senza pietà una poveretta solo colpevole di essere una fervente cattolica. Maria ha un fratellino di quattro anni che non parla, autismo dicono gli specialisti. Ma lei comincia a pensare che se offrisse la propria vita a Dio potrebbe ottenere in cambio la guarigione del fratello. >>SPOILER

Luigi Locatelli - nuovocinemalocatelli.com

   Il volto di una ragazzina coronata di spine e sopra la scritta «Si può amare Dio e la musica pop?». Questo lo slogan del poster scelto dal marketing per lanciare anche in Italia Kreuzweg – Le stazioni della fede, film del regista Dietrich Brüggemann, vincitore dell’Orso d’argento a Berlino 2014 come migliore sceneggiatura (firmata dalla sorella Anna) e del Premio della giuria ecumenica. Una pellicola particolare per il taglio registico originale, ma anche per una tematica controversa che potrebbe non essere chiara di primo acchito allo spettatore meno preparato. Perché quando si parla di un film «contro i fondamentalismi» per una pellicola incentrata sulla fede cristiana è opportuno fare alcune distinzioni. Soprattutto quando l’opera è ben girata, con cognizione di causa e con una sequenza di lunghe inquadrature fisse che concentrano l’attenzione sulle inquietudini adolescenziali della tenera Maria, in cui molti di noi possono riconoscere se stessi e i propri figli. L’idea registica è quella di associare le quattordici stazioni della Via Crucis a quelle personali di una quattordicenne che sacrifica la sua vita al Signore, decidendo di ammalarsi e morire affinché questi guarisca il fratellino autistico di quattro anni. Una decisione estrema frutto di una interpretazione travisata degli insegnamenti cristiani, che il film imputa agli adulti, rei di praticare, come ha dichiarato il regista, «un abuso spirituale» sulla ingenua ragazzina.
Siamo in un paesino del Sud della Germania, presso una comunità chiusa di cattolici tradizionalisti collegati alla “Fraternità San Paolo”, in cui il regista adombra la “Fraternità San Pio X”, comunità scismatica, che non riconosce la validità del Concilio Vaticano II, fondata dal vescovo Marcel Lefebvre. Comunità verso la quale è in corso un lento e complesso cammino di riavvicinamento per giungere alla piena comunione con la Chiesa cattolica. C’è una forte connotazione personale nel film, poiché la famiglia del regista faceva parte di questa comunità, ma in seguito se ne allontanò. Il regista, che dichiara di non avere nulla contro la Chiesa cattolica o la religione, però segue con convinzione una tesi “allarmistica”. I “colpevoli” del disastro che porta la ragazzina, alla difficile ricerca di una propria identità, verso il dramma sono la rigida madre della piccola, una fanatica religiosa che la colpevolizza, e il prete che prepara alla Cresima la ragazzina. Quando il film si apre con la scritta della prima stazione «La condanna a morte di Gesù» e la si abbina alla lezione di catechismo che il giovane e convincente padre Weber fa a un gruppo di adolescenti viene un brivido. Perché è proprio all’inizio che occorre sgomberare il campo da ogni ambiguità, distinguendo fra tradizione e tradizionalismo. Padre Weber contesta il Concilio Vaticano II, le sue aperture, la Messa nella lingua nazionale e la musica rock come espressione del demonio. Ma parte della dottrina che esprime, come il valore dello spirito di sacrificio, l’invito ai ragazzi a impegnarsi nella vita, a non seguire gli impulsi e a cercare di salvare le anime dei propri compagni, sono tutto sommato condivisibili.
Sarebbe un peccato che lo spettatore facesse di tutta l’erba un fascio, confondendo l’ambiente esasperato in cui si muove la storia, con la religione cattolica, tacciandola di “fondamentalismo” tout court, senza riconoscere invece il valore formativo dell’impegno della stragrande maggioranza dei religiosi che si dedicano alla gioventù. A equilibrare in parte i toni c’è la bellissima figura di Bernadette, la ragazza alla pari che vive nella famiglia di Maria, che rappresenta il volto solare del mondo cattolico. La cosa più commovente del film resta però il sincero desiderio di Dio della piccola Maria, l’amore per il prossimo a costo di rinunciare a se stessa. Una “santa bambina” dei nostri giorni, incompresa e incomprensibile, che ha il pregio di farci riflettere.

Angela Calvini - avvenire.it




 

promo

Scandito dalle stazioni della Via Crucis, Kreuzweg è la personale ascesa ad un personale martirio di una ragazzina di 14 anni cresciuta in una famiglia cattolico-integralista. Un film che non dileggia chi crede, che si fa domande ma non dà risposte, con un occhio a Dreyer, Bergman, Mungiu. Non tanto un atto d’accusa al fondamentalismo cristiano, ma un cammino di riflessione umana tout court che, stazione dopo stazione, non rinuncia mai ad instillare dubbi e complicare la questione. Orso d’argento per la miglio sceneggiatura e Premio della giuria ecumenica alla 64a Berlinale, Kreuzberg è, anche cinematograficamente, una “rivelazione”.

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