Kreuzweg
del giovane regista bavarese Dietrich Brüggemann (36) è la storia di
un’educazione ultrareligiosa. Un’altra pellicola sull’estremismo islamico?
No, cattolico. Un’educazione mortale. L’abuso psicologico di una
quattordicenne sullo sfondo dell’amena provincia rurale tedesca. Oggi. La
camera all’inizio è fissa sul volto dell’adolescente. Con i compagni la
ragazza non sta assistendo a una lezione di catechismo ma di guerra. Viene
voglia, e qui il film centra l’obiettivo, di alzarsi, entrare nello
schermo e strappare Maria dall’abbraccio mortale di madre, padre e di un
prete delirante. In quest’ottica alla fine Maria tende alla gioia più
grande attraverso il sacrificio più grande. Morire per Dio.
Dietrich Brüggemann racconta "i giorni" di Maria. Un film dove non c’è un
solo momento ad alleggerire il respiro. A scuola viene isolata dai
compagni per la sua ‘stranezza’ religiosa, come dice un ragazzino
all’insegnante. Maria intanto non mangia più. “Chi dice a una bambina
di 13 anni che a guardare bene nel cuore si trova ogni peccato possibile,
commette una violenza psicologica”, così il regista Brüggermann.
“Voler trasformare un bambino in un soldato distorcendo completamente
l’autentico signficato delle Scritture, fa un tragico danno”. Notevole
l’attore Florian Stetter nei panni del parroco. Comprensivo, suadente, di
ghiaccio. Il tema dei bambini soldati è trattato con grande attenzione e
abilità cinematografica. Non ci sono tracce di luoghi comuni mediatici. La
camera è perfetta. Brüggemann e la sorella sceneggiatrice da bambini hanno
vissuto un’esperienza simile: i genitori erano vicini a un gruppo
religioso ultraconservatore. I traumi di quell’infanzia Brüggemann li
elabora nel suo film. Un film forte e silenzioso come un palco di teatro
prima delle prove.
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Vincitore
alla Berlinale del premio per la migliore sceneggiatura in un concorso
peraltro sontuoso che allineava Boyhood,
Grand Budapest
Hotel e
Fuochi d’artificio in pieno giorno (poi vincitore dell’Orso
d’oro),
Kreuzweg
meritava di più, meritava l’Orso d’oro, perché questo è
uno dei film migliori della decade. Un film bello e importante per quanto
racconta e come lo fa. Per il coraggio, inaudito,
di riproporre al centro
della narrazione e alla nostra attenzione il sacro, il trascendente, il
religioso, l’oltre-naturale. Dio. La fede. Il cristianesimo vissuto come esperienza totale e radicale
in un’Europa, in un Occidente, oggi quasi completamente secolarizzati.
Cioè, tutto quello che la cultura ormai dominante – quella di cui sono
intrisi i media e anche le nostre menti, le nostre conversazioni, le
nostre cene conviviali con amici e conoscenti e non-conoscenti – ha
espunto da molto tempo quale cosa sconveniente, anche socialmente
sconveniente, quale residuo di un’età oscura, quale indice di una visione
povera del mondo e di bassa appartenenza (sotto)culturale. Sono laico, ma
ho un gran rispetto per chi crede e, ebbene sì, anche per il
cristianesimo, senza del quale noi – noi dell’occidente intendo – saremmo
quello che siamo, anche i laici che siamo. Detesto le grevi e triviali
polemiche antiecclesiastiche, antipapiste, contro la Chiesa troppo ricca e
arruffona e corrotta, e tutto quello sparlare greve di Ior e Marcinkus, e
delle scarpe Prada di Ratzinger ecc. ecc. Quell’ignobile repertorio del
dalli al prete, dalli alla tonaca, dalli al papa e al cardinale, di cui
sono pieni, e basta dare un’occhiata, i social media che frequentiamo.
Ecco, in un mondo che oggi è questo qui, appare un film come
Kreuzweg, ed
è una rivelazione. Storia, sofferenza e passione di una ragazzina di anni
14 di nome Maria. Che è parte di una famiglia cattolico-tradizionalista,
messa e preghiere in rigoroso latino, recupero e pratica del rito
tridentino, ogni passione e ogni cedimento alla carne banditi. Un ambiente
che somiglia a quello filmato in uno dei documentari migliori del 2013,
Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini (lì eravamo in Texas,
all’interno di una famiglia di fede presbiteriana). Si sta preparando alla
cresima, Maria, dunque a diventare soldato di Cristo, ma la sua mente è
tormentata dall’idea del martirio, del sacrificio di sé a Dio. Aspirazione
che è stata in passato di tante sante, di tante ‘pazze di Dio’, e oggi
liquidata come aberrazione psichica. Lo straordinario di questo film è che
prende sul serio Maria e la sua aspirazione a un personale calvario, non
la liquida trivialmente come una matta da legare, ce la racconta
sospendendo ogni giudizio e standole invece vicino e facendocela amare. E
anche se il regista (pure autore della sceneggiatura insieme alla sorella
Anna, che pare abbia sperimentato un’educazione simile) ci mostra la
durezza iper rigorista del contesto familiare e soprattutto della madre,
si astiene da ogni rozza polemica antireligiosa. Il contrario di quello
che aveva fatto l’austriaco Ulrich Seidl nel suo tremendo
Paradiso: fede
dove sbeffeggiava senza pietà una poveretta solo colpevole di essere una
fervente cattolica. Maria ha un fratellino di quattro anni che non parla,
autismo dicono gli specialisti. Ma lei comincia a pensare che se offrisse
la propria vita a Dio potrebbe ottenere in cambio la guarigione del
fratello.
>>SPOILER
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Il
volto di una ragazzina coronata di spine e sopra la scritta «Si può
amare Dio e la musica pop?». Questo lo slogan del poster scelto dal
marketing per lanciare anche in Italia
Kreuzweg – Le stazioni della fede,
film del regista Dietrich Brüggemann, vincitore dell’Orso d’argento a
Berlino 2014 come migliore sceneggiatura (firmata dalla sorella Anna) e
del Premio della giuria ecumenica. Una pellicola particolare per il taglio
registico originale, ma anche per una tematica controversa che potrebbe
non essere chiara di primo acchito allo spettatore meno preparato. Perché
quando si parla di un film «contro i fondamentalismi» per una pellicola
incentrata sulla fede cristiana è opportuno fare alcune distinzioni.
Soprattutto quando l’opera è ben girata, con cognizione di causa e con una
sequenza di lunghe inquadrature fisse che concentrano l’attenzione sulle
inquietudini adolescenziali della tenera Maria, in cui molti di noi
possono riconoscere se stessi e i propri figli. L’idea registica è quella
di associare le quattordici stazioni della Via Crucis a quelle personali
di una quattordicenne che sacrifica la sua vita al Signore, decidendo di
ammalarsi e morire affinché questi guarisca il fratellino autistico di
quattro anni. Una decisione estrema frutto di una interpretazione
travisata degli insegnamenti cristiani, che il film imputa agli adulti,
rei di praticare, come ha dichiarato il regista, «un abuso spirituale»
sulla ingenua ragazzina.
Siamo in un paesino del Sud della Germania, presso una comunità chiusa di
cattolici tradizionalisti collegati alla “Fraternità San Paolo”, in cui il
regista adombra la “Fraternità San Pio X”, comunità scismatica, che non
riconosce la validità del Concilio Vaticano II, fondata dal vescovo Marcel
Lefebvre. Comunità verso la quale è in corso un lento e complesso cammino
di riavvicinamento per giungere alla piena comunione con la Chiesa
cattolica. C’è una forte connotazione personale nel film, poiché la
famiglia del regista faceva parte di questa comunità, ma in seguito se ne
allontanò. Il regista, che dichiara di non avere nulla contro la Chiesa
cattolica o la religione, però segue con convinzione una tesi
“allarmistica”. I “colpevoli” del disastro che porta la ragazzina, alla
difficile ricerca di una propria identità, verso il dramma sono la rigida
madre della piccola, una fanatica religiosa che la colpevolizza, e il
prete che prepara alla Cresima la ragazzina. Quando il film si apre con la
scritta della prima stazione «La condanna a morte di Gesù» e la si abbina
alla lezione di catechismo che il giovane e convincente padre Weber fa a
un gruppo di adolescenti viene un brivido. Perché è proprio all’inizio che
occorre sgomberare il campo da ogni ambiguità, distinguendo fra tradizione
e tradizionalismo. Padre Weber contesta il Concilio Vaticano II, le sue
aperture, la Messa nella lingua nazionale e la musica rock come
espressione del demonio. Ma parte della dottrina che esprime, come il
valore dello spirito di sacrificio, l’invito ai ragazzi a impegnarsi nella
vita, a non seguire gli impulsi e a cercare di salvare le anime dei propri
compagni, sono tutto sommato condivisibili.
Sarebbe un peccato che lo spettatore facesse di tutta l’erba un fascio,
confondendo l’ambiente esasperato in cui si muove la storia, con la
religione cattolica, tacciandola di “fondamentalismo” tout court, senza
riconoscere invece il valore formativo dell’impegno della stragrande
maggioranza dei religiosi che si dedicano alla gioventù. A equilibrare in
parte i toni c’è la bellissima figura di Bernadette, la ragazza alla pari
che vive nella famiglia di Maria, che rappresenta il volto solare del
mondo cattolico. La cosa più commovente del film resta però il sincero
desiderio di Dio della piccola Maria, l’amore per il prossimo a costo di
rinunciare a se stessa. Una “santa bambina” dei nostri giorni, incompresa
e incomprensibile, che ha il pregio di farci riflettere.
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