sul film (G.M. Tavarelli)
Avevo
apprezzato enormemente
La meglio
gioventù, vidi il film tutto di
seguito all’anteprima dell’Auditorium di Roma. Mi piace molto in generale
il racconto “nel tempo”, come
Heimat,
epopee che durano molto e sviluppano generazioni che si alternano, eventi
storici che si mescolano con accadimenti privati. Quando Angelo Barbagallo
mi ha proposto il progetto de Le cose che restano mi è piaciuto subito.
Una vicenda che si svolge nell’arco d’un paio d’anni appena, ma che aveva
bisogno d’uno sviluppo narrativo di sei ore perché i personaggi, i
percorsi che compiono, hanno necessità di tempo. I traumi che la vita
impone ai personaggi necessitavano d’uno sviluppo più lento. Rispetto
all’eredità de
La meglio
gioventù non mi sono mai sentito
penalizzato, anzi è un’ombra che fa bene. Sono orgoglioso di dire che Le
cose che restano nasce da una costola di quel grande successo.
Le cose che restano racconta una vicenda del tutto diversa ma con la
stessa straordinaria capacità di Rulli e Petraglia d’intrecciare le
storie, di riuscire ad inventare snodi narrativi attraverso i quali la
trama procede o cambia binario. Un grande affresco sulla sostanza della
società italiana, anzi direi della società occidentale, che affrontano
temi come l’immigrazione, l’omosessualità, un’apertura nuova nei rapporti
interpersonali.
Il mio lavoro è consistito nel dare vita alla sceneggiatura attraverso gli
attori, gli ambienti, la messa in scena vera e propria. Le vicende che il
film racconta sono molto minime, tristemente quotidiane, piccoli
spostamenti del cuore, grandi o piccoli tradimenti. Una quotidianità in
linea con i miei film precedenti. Le cose minime sono raccontabili
soltanto attraverso degli attori in grado di riportare quelle sfumature. È
un film pieno di dolore, d’emozione tangibile. Era importante non renderlo
lacrimevole, grazie a degli attori che recitassero in modo molto naturale,
molto vero.
Avevo subito pensato a Daniela Giordano per il ruolo della madre, perché
avevo già lavorato con lei in Paolo Borsellino.
Sapevo che ha le corde perfette senza bisogno di “recitare”, con quel suo
volto da bambina maturata. Lo spaesamento del personaggio della madre è
stato reso da Daniela in modo naturale, senza mai calcare sull’angoscia,
soltanto con il suo sorriso dolce che nasconde la disperazione. Nel caso
di Claudio Santamaria, che interpreta il ruolo del fratello omosessuale,
abbiamo cercato di raccontare l’amore di due persone l’una per l’altra
sottraendoci a tutti i possibili luoghi comuni, alle posture del corpo o
della voce, mirando all’anima di quel rapporto. Esattamente come lo vive
una coppia eterosessuale, con gli stessi desideri. Anche di Paola
Cortellesi e di Ennio Fantastichini conoscevo già il potenziale enorme.
A me piacciono molto gli attori “caldi”, nel senso che abbiano un proprio
vissuto, un loro mondo messo totalmente a disposizione del film. Penso che
un padre come quello che interpreta Ennio non debba essere infallibile,
non piangere mai, ma che debba avere le sue debolezze. Però lui sa esserci
nei momenti importanti, e quando ritorna è realmente un padre, non nel
senso dell’autorità ma perché capisce i problemi dei figli e sa far sì che
si aiutino da soli.
Più complicato è stato scegliere un attore per il ruolo di Nino, dell’età
cioè d’uno studente universitario. Abbiamo fatto moltissimi provini.
Lorenzo Balducci ne fece due, e alla seconda mandata interpretò tre scene
perfettamente. È un attore che sa trasformare qualunque cosa gli fai fare
in un modo vero e credibile. Nino è difficile, controverso, meno
“positivo” rispetto agli altri personaggi. Critica le cose che fa, non è
coerente, aggredisce il padre e poi si comporta nel suo stesso modo, a
volte è saputello. C’era il rischio di rendere Nino antipatico, oppure di
spogliarlo di certe sue contraddizioni. Lorenzo è riuscito invece,
malgrado i lati negativi del personaggio, a tenerci sempre dalla sua
parte, a farsi capire. Per il ruolo del fratello minore cercavo invece un
attore che fosse un po’ il suo opposto. Facendo una serie di provini
abbiamo incontrato Alessandro Sperduti che è molto allegro nella vita, ti
trasmette subito un senso di amicizia. Sul set con gli attori in generale
non abbiamo fatto grandi prove, quasi sempre abbiamo subito girato. Volevo
che non perdessero la spontaneità, ma anche l’insicurezza che hanno la
prima volta che interpretano una scena. Spesso giravamo anche le prove.
In una prima versione il testo s’intitolava “La casa”, ed era quella la
protagonista del film. Ci abbiamo messo molto a trovarla, ad arredarla,
trasformando degli uffici notarili dismessi in una dimora borghese. La
casa è importantissima per quella famiglia numerosa, fracassona, e segue
il percorso dei personaggi. Dopo un periodo iniziale di luci accese si va
svuotando, rimane chiusa, al buio, e alla fine viene riconquistata
gradualmente, stanza per stanza, riprendendo le sue funzioni vitali, la
sua forza. Si riempie di altre vite, di altre situazioni. Analogamente la
macchina di Lorenzo segue un percorso simile, evoca come un totem un
personaggio che nessuno riesce a dimenticare. La macchina riprende poi
vita, riporta Nino dalla madre esorcizzando un dolore. Dallo
sfasciacarrozze la macchina diventa il simbolo di qualcosa che non puoi
più portarti dietro per continuare a vivere.
Il film racconta gli immigrati come esseri umani a tutto tondo, capaci di
pensare. Shaba infatti è il personaggio che capisce meglio quanto accade.
Quando entra nella casa di notte con uno sguardo percepisce tutto ciò che
era successo lì. Lei si conquista lo spazio da sola, con la sua bontà, la
sua intelligenza, la sua capacità d’aiutare Nino senza mai chiedergli
niente. Anche la madre di Nino si specchia completamente in Shaba.