C'è
troppa luce nel bianco dei ghiacci che circondano Nightmute, e nella sua
notte sempre accesa. Ce n'è troppa nella stanza d'albergo di Will Dormer
(Al Pacino), con quella finestra esposta senza difese a un sole ostinato.
E ce n'è troppa nella sua memoria di poliziotto, nei suoi occhi che non si
arrendono al sonno. Questo è il cuore di
Insomnia: questa
sconfitta della notte, questa veglia senza tregua. Come accade, o come
accadeva, per il grande cinema americano (che sa, o che sapeva, esser
popolare e insieme profondo), il bel film di
Christopher Nolan
chiede due
livelli di lettura. Il primo, immediato, è quello del racconto di genere:
un poliziesco in cui le atmosfere valgono almeno quanto l'intreccio. Il
secondo, più ambizioso, è quello dell'introspezione, dell'argomentazione
morale. Chi è Will, oltre che un poliziotto famoso e un accanito
investigatore? «Io sono quello che attribuisce le colpe»: così si
definisce lui stesso, nella sceneggiatura che Hillary Seitz trae da quella
scritta da Nikolaj Frobelnius ed Erik Skjoldbjaerg per un film norvegese
del 1997 (Insomnia,
regia dello stesso Skjoldbjaerg). Così ha fatto Will per gran parte della
sua vita, e così fa a Nightmute: assume su di sé l'onere di migliorare il
mondo, di liberarlo se non dalla colpa almeno dai colpevoli. Il centro del
racconto di genere sta qui: per la prima volta, Will non è solo quello che
attribuisce le colpe, ma un colpevole egli stesso, e la sua storia di vita
rischia d'esserne ridotta a niente. Ad aumentare la sua angoscia c'è
l'ammirazione che ha per lui, poliziotto perfetto, la giovane Ellie Burr (Hilary
Swank). Per quanto Will cerchi di sottrarsi al ruolo di ideale e modello,
la donna resta per lui uno specchio doloroso. Su di esso misura la
distanza tra l'immagine che di se stesso ha coltivato a lungo e il se
stesso che ora è costretto a vedere. Accanto a Will c'è Walter Finch (Robin
Williams), l'antagonista in senso pieno, l'immagine rovesciata di Will: da
lui tanto distante e a lui tanto vicino quanto lo può essere un'immagine
rovesciata. In fondo, Walter fa il suo stesso mestiere, per quanto solo
nei suoi romanzi. Forse per questo, per l'illusione di onnipotenza che ha
coltivato nella scrittura, immagina di poterlo fare senza vincoli e senza
limiti. Ha ucciso, Walter, ma rifiuta di riconoscersi colpevole, abituato
com'è a imputarla ad altri, la colpa. E questo rifiuto inutilmente cerca
di suscitare anche in Will, che è a lui appunto "vicino" nella tentazione
di autoassolversi, e che lo potrebbe fare con motivazioni certo più forti
delle sue. Quanto al colpo di pistola che ha ucciso il suo compagno Hap
Eckhart (Martin Donovan), infatti, ben potrebbe convincersi d'averlo
esploso solo per errore. Ma Will è anche "lontano" da Walter, dalla sua
presunzione esistenziale, dal suo delirio d'onnipotenza. D'altra parte, la
colpa che soprattutto lo tormenta, e che lo costringe alla veglia con
l'ostinazione d'un sole sempre acceso, è quella d'aver forzato nella sua
camera vincoli e limiti, pur di migliorare il mondo. Anche ora, con
Walter, si convince d'averne diritto, per quanto proprio così si consegni
nelle mani del suo antagonista, fin quasi a identificarsi con lui, come
lui sporco di sangue (ripugnante è il suo frugare in una carogna, pur di
attribuire all'assassino una colpa cui altrimenti quello si sottrarrebbe;
e ancora più potente è l'immagine del sangue di cui s'è lordato nel
passato, disseminando di prove false l'appartamento di un colpevole
"vero"). L'insonnia di Will, dunque, è molto più che il sintomo d'un
fallimento professionale imminente. I suoi occhi non riescono a chiudersi
soprattutto perché hanno preteso di veder troppo. Nella presunzione tipica
di chi supponga d'esser chiamato a migliorare il mondo, li ha caricati del
peso d'ogni colpa e dell'onere d'ogni salvezza, saturandoli delle immagini
più insostenibili e disumane (infatti, in quel che resta d'una adolescente
vede addirittura la storia del suo assassinio). E così li ha paralizzati
con un eccesso di luce. Li ha costretti a restare spalancati, senza
potersi più perdere nell'ombra. Questo sono per lui il bianco dei ghiacci
che circondano Nightmute, la luce che i vetri della camera non riescono a
fermare, il sole che si ostina a non tramontare: sono il sintomo di una
cecità paradossale, una cecità che potrà guarire solo quando, abbandonata
la presunzione d'essere «quello che attribuisce le colpe», accetterà
d'esser solo un poliziotto, solo un uomo che riconosce e aspetta vincoli
giuridici e limiti morali. E a quel punto ben potrà lasciar cadere le
palpebre, così abbandonandosi alla notte.
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