Garage
Lenny Abrahamson - Irlanda 2007 - 1h 25'

  Buone notizie dall'Irlanda. Nel paese di Joyce c'è ancora chi lavora sulla nostra immaginazione anziché sfinirci di immagini, suoni e spiegazioni. Che cosa passa per la testa di Josie, corpulento sempliciotto sui 40 che gestisce con ingenua dedizione una pompa di benzina sperduta nella campagna irlandese? Non molto a prima vista. I compaesani lo trattano con un misto di condiscendenza, pietà, sarcasmo, paternalismo, ma mai con sincerità. Gli unici che sembrano poter dividere con Josie tempo e attenzioni accettandolo per ciò che è, sono il cavallo cui ogni giorno porta un dolce e David, il timido ragazzino spedito dalla madre a dargli una mano, cui Josie offre forse qualche birra di troppo. O magari quel vecchio che lo porta sul lago per avere qualcuno con cui parlare, in un dialogo fra sordi carico di non detto e di emozione, davvero da brivido (è qui che si pensa a Joyce).
Garage di Lenny Abrahamson procede così, per brevi scene staccate, sorrette da un sottotesto insinuante che si fa addirittura impetuoso, ma senza perdere un grammo di ambiguità, man mano che Josie si mette nei guai senza capire perché. Non si sa se ammirare di più la grandezza del protagonista Pat Shortt, un Antonio Albanese celtico, famosissimo in patria, o la bravura con cui Abrahamson lavora su volti, tempi, paesaggi, lavorando sempre "a levare" per aggiungere peso e densità al racconto. Una piccola grande scoperta.

Fabio Ferzetti – Il Messaggero

Garage, dell'irlandese Lenny Abrahamson, è prima di tutto un film sull'incomunicabilità. Non tanto quella filosofico/psicanalitica antonioniana, quanto quella classica che si crea nei confronti del diverso, o diversamente abile. Josie è un signore più che quarantenne, probabilmente un po' ritardato, con maglioni dagli orrendi colori, un cappellino sempre in testa e l'ostinata ripetizione di frasi di circostanza tipo "certo" o "vero" a chiunque gli capiti a tiro. Nessuno lo ascolta sul serio, nessuno gli parla da pari a pari, nessuno, fondamentalmente, lo calcola né come amico, né come ipotetico amante. Il Dy's Garage dove lavora è un luogo isolato già di per sé, rispetto al piccolo e a sua volta isolato paese che ogni tanto l'uomo visita per acquisti (e incontrare la bionda Carmel). Josie vive praticamente tutta la sua giornata proprio dentro al garage, avendo costruito sul retro una sorta di mini appartamento spoglio e buio. Poi l'uomo continua a ripetere gli stessi gesti, reitera l'idea di compiere le stesse passeggiate, gli stessi movimenti. Fino a quando un camionista suo conoscente e amico, dopo un bel pieno di diesel, gli regala un vhs porno. L'increspatura non è conclamata né visivamente, né narrativamente, ma il risultato è piuttosto tragico. Nello script di Mark O'Halloran non ci sono particolari spunti di parola che sottolineino il disagio del protagonista, semmai è la regia di Abrahamson a tentare, attraverso la meccanicità delle azioni di Josie e la reiterazione di molte inquadrature che lo ingabbiano, un supposto discorso espressivo sul graduale e inesorabile isolamento. Dire che l'Irlanda sullo sfondo è sempre di una sconcertante tonalità verde-grigio, direttamente proporzionale allo stato d'animo in apparente disfacimento del protagonista, è scontato...

Davide Turrini – Liberazione

cinema invisibile TORRESINO ottobre-dicembre 2009

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Che cosa passa per la testa di Josie, corpulento sempliciotto sui 40 che gestisce con ingenua dedizione una pompa di benzina sperduta nella campagna irlandese? Garage è prima di tutto un film sull'incomunicabilità. (non tanto quella filosofico/psicanalitica antonioniana, quanto quella classica che si crea nei confronti del diverso) e non si sa se ammirare di più la grandezza del protagonista o la bravura con cui Abrahamson agisce su volti, tempi, paesaggi, lavorando sempre "a levare" per aggiungere peso e densità al racconto. Una piccola grande scoperta.