da La Stampa (Lietta Tornabuoni) |
Tornando una sera nella sua casa elegante di Parigi all'inizio del Novecento, un uomo ricco, appagato, contento di sé, trova una lettera in cui la moglie sposata dieci anni prima lo informa: me ne vado. Stordito, smarrito, lui non sa cosa pensare, non capisce come sia accaduto, e perché, e con chi: le sue certezze vacillano, il suo ordine razionale non regge. Poco dopo, la moglie rientra. Dice: «È stato un errore. Non ci sono riuscita». Non dice altro, soltanto il nome dell'amante: ma lui finge di non sentire, perché si tratta di un uomo che detesta. Domanda invece: «Cosa ti ha fatto tornare?». E lei: «Non so». Isabelle Huppert e Pascal Greggory sono interpreti di straordinaria bravura di Gabrielle di Patrice Chéreau: un lungo dialogo (interrotto appena da qualche scena di ricevimento o di apparizione di cameriere) tra l'uomo e la donna, ma soprattutto tra l'algida razionalità della vita dominata dalle regole borghesi e l'emotivo desiderio di passione proiettato verso un futuro diverso. Il regista sa estrarre il pensiero e il dolore dalle facce dei suoi attori molto intensamente, nel film da camera presentato in concorso: in questo caso, anche le spalle irrigidite, l'energia dei gesti, l'impassibilità e la compostezza autorevole di Isabelle Huppert, a volte noiose e prepotenti, sono perfettamente adeguate. |
da Film Tv (Mauro Gervasini) |
Parigi, primi del '900. Harvey una sera torna a casa e trova la lettera d'addio della moglie. La quale, a sorpresa, torna dopo qualche ora. Non come se niente fosse, ma quasi. Nella sua vita un altro uomo, forse insignificante. Tra i due comincia un gioco al massacro psicologico, pronto a deflagrare in dramma. Tratto da un racconto di Conrad, che alludeva all'impotenza dell'uomo positivista, sicurissimo di sé, di fronte al turbinio della passione, della gelosia, dell'ossessione amorosa. Chéreau sceglie come registro quello del cinema "da camera", molto concentrato sugli attori (Pascal Greggory e Isabelle Huppert sono mostruosamente bravi), sui primi piani, sugli scorci d'ambiente rubati qua e là. Il risultato è stilisticamente perfetto, rigoroso nella conduzione ma anche formale e un po' ingessato. Questi duellanti alto-borghesi, ai quali si aggiunge una cameriera dal ruolo equivoco, si scarnificano a parole e con gli sguardi, ma i novanta minuti che precedono il potente finale sono onestamente faticosi. Un cinema di testa, forse un po' inutile. |
da Il Giornale nuovo (Michele Anselmi) |
Parigi primo Novecento i coniugi Hervey aprono ogni giovedì il loro salotto alla buona società. Formano una coppia agiata e, in apparenza, sperimentata. Monsieur Hervey si vede rispecchiato nella moglie Gabrielle: un uomo solido, rispettato, socialmente invidiato e ammirato. Un pomeriggio, però, tornando a casa, trova un biglietto con cui lei gli annuncia di averlo abbandonato per un altro, ma, mentre è ancora in preda allo choc, lei ritorna: «Ho avuto paura» confessa. Non ce l'ha fatta ad andarsene e tuttavia non accetta più che tutto possa essere come prima. Tratto da un racconto di Conrad, Il ritorno, e costruito con impianto teatrale e un'alternanza cinematografica di bianco e nero e colore, Gabrielle ha il suo punto di forza in una superba ricostruzione di ambienti e, soprattutto, in Isabelle Huppert, bravissima nel disegnare il ritratto di una donna che scopre per la prima volta i suoi sentimenti e quindi se stessa e così facendo si accorge di non aver mai saputo niente del marito, un concentrato di convenzioni più che un essere umano. Nello scontro fra i due, sarà lui ad andare in pezzi e saranno di Gabrielle le parole più crudeli e illuminanti sull'amore, la sua mancanza, la sua ricerca. |
TORRESINO
- settembre-ottobre 2005