Spesso
capita che nelle sezioni parallele dei festival si trovino opere che
sono delle vere e proprie scoperte, o sorprese inaspettate legate ad
autori che non si conoscono e perciò difficilmente collocabili. Nella
seconda edizione delle Giornate degli Autori è passato
Falling… in love
del taiwanese Ming-tai Wang, regista non alle prime armi e assistente
alla regia a più lungometraggi del ben più noto Tsai Ming-liang. E di
quest’ultimo effettivamente si sente forte l’influenza: come
suggerisce il titolo si parla d’amore...<<
in una sorta di proseguimento ideale della tendenza a cui siamo
abituati con i film di Ming-liang. Ma l’interesse per la poetica e lo
stile di Wang Ming-tai sta proprio nella capacità da parte del regista
e autore di prendere le distanze dal modello più vicino di riferimento
ed elaborare una visione che procede per contrasti, rotture,
mescolanze. Il film si dipana a partire da una frase di Sete d’amore
di Yukio Mishima: “Basterebbe non amarsi e i legami fra le persone
sarebbero più semplici. Basterebbe non amarsi.”, e segue
l’intrecciarsi delle storie di tre giovani, un ragazzo e due ragazze,
che, in modo più o meno diretto, si troveranno indissolubilmente
legati e, rispettivamente a dover fare i conti con le proprie tragiche
situazioni sentimentali.
Falling… in love si presenta da subito come un’opera stilisticamente
composita e articolata e di non immediata digeribilità. Narrativamente
si procede ad una continua alternanza di registri, a seconda del
personaggio o dei personaggi che occupano la scena, ottenuta mediante
un montaggio libero che frammenta le sequenze e non predilige un
rapporto di causa-effetto. In questo scorrere di passioni estreme,
autolesionismo, sofferenze amorose che vivono della mancanza
dell’oggetto amoroso e vagano alla ricerca di soluzioni rischiose ed
esasperate, c’è la possibilità di una soluzione affettiva, racchiusa
spesso in stanze devastate, e non manca la possibilità costante di
un’apertura offerta dal paesaggio, dall’esterno, dalla natura, come il
vento in un viaggio in moto, la neve giapponese della conclusione. Una
realtà debordante, quella di Taiwan, dove sembra trasparire il
disfacimento del genere maschile, che ha come rappresentanti
principali uno sbandato d’amore alla deriva e un gangster yakuza;
diversamente il mondo femminile nutre una speranza, la stessa che
unisce le due ragazze in un’intima amicizia, che le porta a
condividere i propri segreti, senza però giungere mai a svelarsi che
l’amante che manca ad ognuna di loro è lo stesso uomo. Una realtà in
cui nessuno sembra essere capace di amare e in cui l’amore è vissuto
tutto interiormente come un groppo incomprensibile atto a straziare
l’anima.
Dal punto di vista formale tutto è teso a raffigurare al meglio e con
originalità le componenti amorose vissute dai protagonisti.
Suggestionante è la resa fotografica ottenuta attraverso l’uso di una
pellicola diapositiva con inversione di sviluppo, che produce un
effetto di pastosità della grana e dei colori, con predominanza dei
gialli, dei rossi e dei verdi. I contrasti cromatici producono
un’avvolgente sensazione di calore che pare fuoriuscire dai corpi
angosciati dei personaggi e, nel complesso, forniscono un intrigante
effetto di coinvolgimento, che ha come unico limite quello di
attingere a piene mani a moduli figurativi propri del genio di Wong
Kar-wai (come, del resto, è capitato per
Everlasting Regret
di Stanley Kwan),
e in particolare al periodo precedente a
In the Mood for Love. Certo Wang Ming-tai riesce
ad elaborare un racconto che non è semplice scopiazzatura ma,
affinando la visione, è possibile scorgere evidente quanto più il film
renda omaggio a Kar-wai rispetto al padre putativo Ming-liang, a come,
agli effetti, sia sempre l’amore l’asse portante delle storie di
questi autori.
Falling… in Love è un atto d’amore a tutto tondo: verso
un cinema, verso un sentimento, verso un’aspirazione profonda
impossibile da governare.
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