Nel clima esasperato d'oggigiorno, tra l'incubo
dell'AIDS e la cinica escalation del traffico di droga, una pellicola come
Drugstore Cowboy rischia di presentarsi come un'ambigua mitizzazione
degli "ingenui" anni '70: droga ed evasione, letteratura d'avanguardia
e nuovi spazi per la mente... Il film di Gus Van Sant
va letto invece come
un'impietosa analisi di una realtà ormai superata, ma che ha in
sé una pregnanza sociale che merita una volta di più di essere
fotografata e divulgata per meglio documentare germi e contraddizioni di
un fenomeno inesorabilmente attuale. Anche perché la vicenda di Drugstore Cowboy nasce da una storia vera, da un libro autobiografico
di impietosa veridicità: Bob Hughes è il capo di un piccolo
gruppo di junkies. Con lui sono la moglie Dianne ed un'altra coppia, Rick
e Nadine. I quattro vagano, allo sbando, da una città all'altra
dell'Oregon. Vivono rapinando i drugstore, dove possono recuperare pasticche
o altro da sciogliere nella siringhe; sopravvivono a se stessi in un'esistenza
sfuocata tra annichilimento ed esaltazione. Quando però Nadine ci
lascia la pelle (un'overdose casuale o cercata?) Bob decide di smetterla.
Accetta di curarsi, rinuncia a Dianne che non vuole abbandonare il giro,
prova con il metadone e le riunioni di gruppo, trova lavoro come operaio,
soffre nel tenersi lontano dalla tentazione di ricominciare... Senza sapere
che purtroppo il destino gli ha riservato una fine amara e assurda.
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