Negli
anni 30 sarebbe stato un classico del cinema, nel 60 un capolavoro,
nell'84 è solo un bellissimo film:
Una
domenica in campagna
di Bertrand Tavernier
, sceneggiato a quattro mani con sua moglie Colo da
un romanzo breve (104 pagine) di Pierre Bost, Monsieur Ladmiral va bientót
mourir (Gallimard). Forse fu l'ultima prova letteraria di Bost, nel 1945,
prima che il cinema assorbisse intera la sua attività di scrittore nella
famosa coppia con Jean Aurenche. Nato nel 1901, Bost scrisse una
quindicina di romanzi e con Scandale arrivò a vincere il Prix
Théophraste-Renaudot; ma diventò celebre con i copioni per Delannoy,
Autant-Lara, Clément e altre grandi firme dei "cinema di papà". Certo è
stato Aurenche, recuperato da Tavernier e suo collaboratore preferito, a
segnalare al regista il libretto dell'amico.
Monsieur Ladmiral è un'operina toccata dalla grazia, che menterebbe una
traduzione italiana: la cronaca di una domenica a Saint-Ange-des-Bois
presso Parigi dove l'anziano pittore Urbain Ladrniral, ex Prix de Rome e
artista pluridecorato, riceve la visita di figli e nipoti. Il racconto
dura poche ore, dalla mattina inoltrata al tramonto, e descrive
l'intreccio di sentimenti e risentimenti fra tre generazioni. Non contano
gli eventi minimi della giornata festiva (l'arrivo, il pranzo, la siesta,
i giochi dei ragazzi, i discorsi obbligati), ma ciò che c'è dietro sul
fatale approssimarsi della morte, l'amarezza struggente dei bilanci
esistenziali. Il vecchio Ladmiral si interroga sui sentimenti per il
figlio Gonzague, che ha la vocazione del benpensante e per la prediletta
figlia Irène; ma anche sulla pittura che ha sempre fatto e su quella che
avrebbe potuto fare. I nipoti rumoreggiano intorno sconvolgendo la vita
tranquilla del rifugio campestre, più allarmanti che affettuosi, e la
serva s'inchina ai voleri del padrone sempre agitando la tremenda minaccia
di lasciarlo solo.
Un felice esempio di letteratura intimista, sulla falsariga del romanzo
d'analisi tra Proust e i racconti di Mann; e il film, che ogni tanto
ricorre alla voce fuori campo, ne sembra la fedelissima illustrazione. Si
pensa a quello che dice Win Wenders in Lo stato delle cose: "Non conta
la storia, bastano gli spazi fra i personaggi". Tavernier penetra in
questi spazi con un evidente gusto del grande cinema, ma anche della
grande pittura: i numi tutelari dell'operazione si direbbero Renoir padre
e figlio, il pittore impressionista 'e a cineasta del realismo
psicologico. La macchina da presa sembra respirare a pieni polmoni quando
contempla prati, alberi e sentieri negli esterni del giardino; ma è
altrettanto ispirata quando, sulla musica di Gabriel Fauré, accarezza
l'arredo degli interni d'epoca protagonistizzando quello che i vecchi
teorici chiamavano "materiale plastico".
Nel contesto, il regista fa agire una compagnia di attori visibilmente
coinvolti, degni di Stanislawski o di un film di Bergman (molto buono il
doppiaggio diretto da Marco Tullio Giordana). L'irruente Sabine Azéma che
fa un’Irène adorabile e vulnerabile; il compassato Michel Aumont (Gonzague,
ma la moglie lo ha ribattezzato Edouard): un vecchio ragazzo che nasconde
irrisolte turbe adolescenziali dietro un eccesso di rispettabilità; ma
soprattutto Louis Ducreux stupendo eroe borghese di una vita d'artista
culminata in una silenziosa guerra dei sentimenti, presenza centrale di un
evento dove la realtà si impadronisce dell'invenzione cineletteraria e ne
fa qualcosa che ci tocca, oltre la finzione dello spettacolo. Ducreux era
sparito da quel dì dai repertori e dagli almanacchi, pur essendo un attore
con una lunga vicenda di commediografo, canzonettista e collezionista
d'arte (alcuni dei quadri che si vedono nel film provengono dalla sua
collezione). La sua apparizione sullo schermo vale quella di Victor
Sjostrom in Il posto delle fragole è uno dei, rari casi in cui
l'interprete divenla il film e dietro il personaggio di fantasia fa
indovinare nei gesti negli sguardi e nelle intonazioni il frammentario
disegno di una confessione a livello psicoanalitico affidata alla simpatia
di chi guarda.
Sul racconto, Tavernier ha operato poche ma significative variazioni. Fra
le novità c'è la presenza di due bambine in cappellino di paglia, che
saltellano qua e là mezze reali e mezze immaginarie a rappresentare il
miste rinnovarsi dell'esistenza: ed è forse l'unica idea
intellettualistica di una strategia compositiva degna di un manuale di
drammaturgia. Spostando l'epoca all'indietro di una decina d'anni rispetto
al libro, che sembra svolgersi nel dopoguerra del '14-18, il regista
accentua il carattere provocatorio dei personaggio di Sabine Azéma e
insiste a tormentone nel farla telefonare a un amante irreperibile.
Alla giovane donna è anche attribuito un dono divinatorio, e solo nel film
Irène legge nella mano della nipotina un destino tragico richiamato
dall'innocuo incidente (anche questo nuovo rispetto al libro) della bimba
che si arrampica su un albero e non sa come discenderne. Un rapido
prossimamente di futuri dolori, al quale si collega il "flash in avanti"
di Gonzague che soffre immaginando il padre già composto sul letto di
morte; e c'è anche un duplice "flashback" in cui prima Ladmiral e poi
Irène ricordano la rispettiva moglie e madre (al suono di musichette
infantili per pianoforte, Il contadino allegro di Schumann e una Wiener
Sonatine mozartiana). Il senso amaro dei racconto è affidato a un altro
ricordo-sogno di Gonzague forse un po' troppo bergmaniano: i genitori
chiamano a un "dèjeuner sur l'herbe" nel prato sotto casa lui e la
sorella, ancora bambini, ma le fragole promesse non ci sono e i piatti
sono vuoti. E' così anche la vita?
Travolta dalle sue amorose nevrastenie, nel racconto di Bost la figlia
torna a Parigi senza aver portato il vecchio a fare il promesso giro in
automobile; sullo schermo Tavernier glielo concede, con tanto di sosta a
un "bal musette" campestre (ma quel complessino non è troppo revivalistico?)
scambio di riflessioni sul passato e presente e poetico ballo d'addio.
Monsieur Ladfniral alias Ducreux, non sa se ha speso bene la sua vita, se
ha dipinto le cose giuste. Non sa nemmeno che cosa vale veramente la pena
di dipingere: questo è il senso dell'ultima scena, con il protagonista che
toglie dal cavalletto il quadro accademico lasciato a metà, ci mette su
una tela bianca e rimane seduto a contemplarla. C'è perplessità, non
disperazione. C'è la speranza indomabile di arrivare a dipingere ancora
qualcosa di buono. C'è la pungente consapevolezza, e ci riguarda tutti,
che il tempo è poco. A questo punto, Una domenica In campagna, film
per cinefili della vecchia ondata e per chi ama il "cinema dell’anima",
sta per pronunciare la parola magica. Ma prima che comincino a scorrere i
titoli di coda c'è solo un'estrema enigmatica immagine del giardino
risplendente di sole. |
Film
che ci risarcisce, memore dei Renoir, dei danni inflitti al buon gusto,
alla grazia e alla misura dal cinema per ragazzacci. Film di tenere ombre
e luci discrete. Film di fremiti e sorrisi. Dunque film da vedere con
animo raccolto, senza aspettarsi nessun'altra emozione che quella prodotta
da un lieve trascorrere nella piccola cronaca di ieri, ma tutta
punteggiata di gesti musicali e di colori armoniosi. E da gustare nei
dettagli, nei cenni minuti che fanno vibrante la memoria d'un'epoca, i
costumi d'una provincia.
Monsiuer Ladmiral, vecchio pittore vedovo, abita con una serva-padrona in
una bella villa nei pressi di Parigi. E' una domenica del 1912, e l'uomo
si rallegra che siano venuti a trovarlo, col treno, il figlio maggiore, la
nuora, i nipotini: portano un soffio di vivacità e devozione nella sua
vita orinai priva di sorprese. Ma molto più si allieta quando arriva
inaspettata, al volante della sua automobile, la figlia minore Irène, una
ragazza impetuosa ed emancipata, che non cessa di rimproverare a papà il
suo modo antiquato di dipingere, tanto più da quando ha trovato in
soffitta un suo quadro giovanile che prometteva un talento innovatore, più
sulla scia degli impressionisti che della pittura accademica a cui si è
poi dedicato.
E' appunto con Irène, mentre gli altri consumano la domenica in
conversazioni banali (e i ragazzi giocano sui prati) che Ladmiral conosce
i momenti più belli. Perché nonostante soffra pene d'amore, anzi proprio
per questo, Irène gli ricorda la giovinezza e gli procura il tenero
rimpianto di quel libero artista che egli avrebbe forse potuto essere;
perché la donna porta scompiglio nei rituali familiari; perché, a
differenza del fratello maggiore, incarna la passione e gli ha detto il
suo affetto in un ballo paesano. Sicché, quando tutti sono partiti, il
vecchio mestamente sorride. Mette da parte il quadro di maniera a cui
stava lavorando e di fronte a una tela bianca forse si chiede, ma senza
rancore verso la vita, se non abbia tradito se stesso, se magari non
possa, ormai settantenne, ricominciare da capo.
Si sarà capito che Bertrand Tavernier (dieci film in dieci anni, tutti
onorevoli) ci ha dato stavolta un film-poemetto, molto lirico e molto
affettuoso, sull'emozione di vivere. Sceneggiando con la moglie il romanzo
di Pierre Bost "Monsieur Ladmiral va bientòt mourir", valendosi della
morbida fotografia a colori di Bruno de Keyzer e della musica di Gabriel
Fauré, Tavernier restituisce con sensibilità ammirevole un'età, un
ambiente, un confronto di caratteri.
La storia che racconta è breve, ma ricchissima di toni. La forma è molto
elegante, ma mai stucchevole. Siamo nel solco, così confortante quando il
seme fruttifica in penombra, di quel cinema francese intimista che coglie
i brividi sotterranei della realtà quotidiana, il retroterra delle parole,
e li mette a paragone con una natura autunnale fasciata di malinconia. Non
per ciò Tavernier è un autore crepuscolare. E' piuttosto un realista
imbronciato per gli inganni del Tempo, e tuttavia soccorso dalla certezza
che la vita degli affetti può vincerli. L'attenzione con cui li assaggia e
ispeziona, l'occhio con cui ne visita le sfumature, la fluidità della
rappresentazione sono i meriti maggiori di un film che, appunto senza
alcuna zona morta, inventa un universo limpido e sereno, nel quale ogni
momento ha la giusta cadenza, ogni carattere il suo segno immediato.
Fra gli interpreti primeggia Louis Ducreux, uno di quei deliziosi attori
teatrali vissuti un po' in disparte (ma ha scritto anche canzoni, e
musiche per i film di Max Ophuls: e sua è la polka che Monsieur Ladmiral
balla con la figlia) dai quali il cinema ricava nuovo prestigio. E al suo
fianco Sabine Azéma si conferma preziosa, per slancio e freschezza.
Brillante e fragile come conviene alla sua Irène. |