In
Distretto 13 – Le brigate della morte
assistiamo quasi in tempo reale (dal tramonto alla sera) all’agguato teso
da una banda di teppisti assassini e fanatici ad un isolato commissariato
di polizia, alla periferia di Los Angeles.
Dentro ci sono una tenente di colore, due funzionari, tre malviventi
in guardina, tra i quali un condannato a morte, e un “pacifico” signore
al quale oi teppisti hanno fatto fuori una figlia a sangue freddo
e lui si è vendicato uccidendo uno di loro. Sia gli assediati che
gli assedianti assottigliano le rispettive file nel corso di assalti
violentissimi e sanguinosi, che verranno poi risolti grazie all’intervento,
che pareva sempre più improbabile, di una forza esterna. Una storia
di violenza, quindi, tanto più inquietante, in apparenza, quanto più
gratuita, non motivata, all’origine, da alcuna ragione. Gli assassini
sono legati da un patto di sangue (fanno parte della “banda Vodoo”)
e perseguono astrattamente il sangue e la morte, ma non sappiamo chi
sono realmente e cosa vogliono. Nella loro delirante ferocia non sono
personaggi umani né tanto meno hanno dei problemi morali, somigliano
piuttosto agli zombi. Dice bene Farassino: “… è il loro mutismo,
la loro mancanza di identità, la loro capacità di dileguarsi e riapparire,
far sparire i cadaveri, il loro muoversi come guidati da una forza
cieca, che trasforma l’intera vicenda in un incubo surreale”.
Niente sociologia, quindi, solo la resa spettacolare di un'atmosfera
d'incubo; e tutti quei morti che restano per terra, a mucchi, sono
oggetti, materiale scenico. E nessuna dichiarativa per il fatto che
il condannato a morte viene armato e scende a fianco dei poliziotti
contro i pazzi scatenati lì fuori: la cosa è imposta dalle circostanze,
salvarsi la pelle è un’esigenza che scavalca gli steccati della legge
ed il passaggio è compiuto senza che nessuno vi filosofeggi sopra.
Spirito allegorico? Si può vedere nel racconto quanto sia fragile
la cosiddetta civiltà avanzata {che ha superato, per esempio, più
o meno, barriera del razzismo),vista l'incredibile situazione “selvaggia”
che si può verificare in una metropoli d’oggi (“Siamo a Los Angeles,
non in una giungla” si fanno coraggio gli assediati. Eppure a
Los Angeles accadono cose da giungla. Oppure si può riflettere sulla
necessità che le canoniche divisioni della società organizzata (i
buoni e i cattivi, i giusti e i reprobi, i liberi e i carcerati) vengano
superate dal bisogno della sopravvivenza di fronte a forze “altre”
(il terrorismo, non i marziani) che si pongono, queste sì, al di fuori
non tanto del consorzio umano quanto della dialettica dell’esistenza.
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