Meglio il digitale e l'invenzione
parascientifica di forme e realtà primordiali o la duttilità caricaturale della plastilina adattata ad una fiaba
paradossale? Il dilemma cinematografico di questo Natale in fondo sta qui, tra
la strombazzata potenza immaginifica di Dinosauri e l'invenzione
divertita e chiassosa di Galline in fuga.
Per entrambi dei "precedenti" cinefili che ne inquadrano
la progettualità, di stile e di target: l'idea che porta alle mirabolanti
architetture genetiche informatizzate di
Dinosauri
passa ovviamente attraverso
il successo planetario della computer graphic di
Toy
Story,
ma risale, nell'essenza della storia, alla fine degli anni '80, quando in casa Disney
si ipotizzava un lungometraggio naturalistico sui grandi rettili,
uno pseudodocumentario che sfruttasse le nuove tecnologie (vedi Cecchi
Paone e la sua "Macchina del tempo"). Il buonismo antropomorfo
della tradizione disneyana e gli spunti utopistici anticipati da
Alla ricerca della valle incantata
(cartone animato
prodotto da Spielberg nell'88) hanno indirizzato il lavoro
di Zondag e Leighton verso un racconto "salvifico" che accompagna
un pluriassortito branco di animali preistorici (tardo Cretaceo,
sessantacinque milioni di anni fa!) nell'esodo verso una terra fertile,
dopo che una pioggia di meteoriti ha trasformato il loro habitat in
una landa desolata. Aladar, il protagonista, è un giovane iguanodonte allevato da una
famiglia di lemuri (Tarzan
docet). Nel viaggio
verso la terra promessa dimostrerà coraggio, spirito di intraprendenza
e sentimenti "umanitari". Tutto perfettamente orchestrato,
in sinergia con la spettacolarità dell'animazione computerizzata,
per stupire e avvincere il pubblico di tutte le età. Il risultato
è raggiunto solo in parte: se la verosimiglianza "documentaristica"
non è perfetta, l'effetto tridimensionale non fa comunque rimpiangere
né la ricchezza cromatica del cartoon classico né l'efficacia iperrealistica
dei pupazzi "in movimento", ma ciò che lascia perplessi
è la superficialità del vero coinvolgimento cinematografico. Superata
l'emozione iniziale di un mondo virtuale che si dipana con vertiginosa
concretezza di fronte ai nostri occhi, la tensione si stempera nel
semplicismo retorico di una preistoria da oratorio: da
Himalaya
a Dinosauri
la tendenza ecologico-morale da SuperQuark ci lascia un po' indifferenti.
Tutt'altro discorso per
Galline
in fuga
(Chicken Run) che ha come antecedenti il film (1993) e i
molteplici corti per la BBC di Wallace
& Gromit, realizzati da Peter Lord e Nick Park. Qui il digitale è un mondo freddo e lontano,
la tecnica
è quella artigianale dello stop-motion,
applicata a personaggi in plastilina, modellati, colorati e
posizionati sul "set" con
maniacale
pazienza e geniale coreografia filmica. Così l'avventura
cinematografica può sbizzarrirsi con naturalezza
miscelando azione, comicità e… citazioni. Spaziando da
Stalag 17
a
Il ponte
sul fiume Kway, ma facendo riferimento soprattutto a La grande fuga, la vicenda di Galline in fuga si
anima in un campo di concentramento per
galline dove l'intrepida Gaia progetta
continue evasioni per sé e per tutto il gruppo, minacciato dalla cinica
gestione della signora Tweedy. L'angoscia individuale di diventare carne da
arrosto (qualora la quota produttiva di uova non venga rispettata) si tramuta
in incubo collettivo quando giunge alla fattoria un mostruoso macchinario per
"sformati di pollo". Il destino di tutte sembra segnato, ma l'arrivo
del Rocky, galletto da circo, fanfarone ma leale, dà a Gaia la verve vincente per spiccare il volo verso
la libertà… A parole la retorica narrativa di Chicken Run sembra
paragonabile a quella di
Dinosauri, ma il cinema è fatto di ritmo,
di capacità di calibrare eccesso
figurativo e affettuosa ironia, di orchestrare un gioco autoreferenziale in cui
i luoghi comuni diventano spassosi punti di forza, le esasperazioni
caricaturali stemperano il "dramma", l'arguzia narrativa e il piacere
del paradosso strappano di continuo il sorriso. |