L'India
e l'America. Il calore della madre patria e il gelo del paese d'adozione.
Il pudore affettuoso dei genitori emigrati e l'aria di sufficienza dei
figli cresciuti a New York, che considerano padre e madre due creature
lontane, buffi reperti di una civiltà tramontata. Senza sospettare quanto
invece siano loro vicini.
Con
Il
destino nel nome
tratto dal romanzo dell'indiana americanizzata Jhumpa Lahiri), Mira Nair
stavolta racconta le famiglie della diaspora, i conflitti domestici, la
distanza generazionale e insieme culturale che forgia non solo caratteri e
aspettative, ma corpi e gesti dei personaggi. Il nome del titolo è quello
di Gogol, proprio come lo scrittore russo, che i due protagonisti
impongono al loro primogenito un po' per caso un po' per omaggio. C'è di
mezzo un disastro ferroviario da cui il futuro padre si salvò per
miracolo. Senza quell'incidente loro due non si sarebbero mai incontrati:
e poiché lui stava leggendo proprio Gogol, il figlio finirà per portare il
nome del grande scrittore russo.
Intanto gli anni passano, il piccolo Gogol cresce e quel nome inizia a
pesargli, i compagni a New York lo prendono in giro. Mentre quei tipi che
girano per casa dicendo di essere i suoi genitori (in originale li chiama
proprio così, "guys"), sfacciatamente sentimentali e attaccati alla
famiglia, gli sembrano sempre più estranei.
Logico che si trovi una fidanzata bionda e americanissima (e assai
scostumata per i codici bengalesi). Meno logico che al primo viaggio a
Calcutta il giovane Gogol, tutto jogging e rock e roll, cada folgorato dal
Taj Mahal tanto da mettersi a studiare architettura. E quando più tardi
quel padre che non aveva mai capito muore all'improvviso, scoppia una
crisi violentissima che nemmeno una nuova fidanzata franco-bengalese, ma
più occidentalizzata di lui, potrà placare. Quelle radici rimosse senza
nemmeno conoscerle tornano con imprevista violenza, tutta la sua vita
passata assume un senso nuovo (vedi il bellissimo flashback della gita al
molo col padre). Anche perché stavolta Mira Nair non cede al pittoresco, o
meglio lo manovra con abilità e discrezione. E infatti le cose più
emozionanti di questo film sempre in bilico fra il pudore e l'effusione
sono quelle appena accennate, le famiglie d'origine di lui e di lei (con
il suocero a Calcutta che dedica preziosi acquerelli alla nascita del
nipote), i sentimenti mai dichiarati ma sempre più forti fra i genitori,
sposatisi per volere della famiglia, e via suggerendo.
Una bella crescita per la regista di
Salaam Bombay
e
Monsoon Wedding. E una nuova bandiera sulla mappa del cinema
globalizzato e meticcio, che anche quando non inventa nulla di nuovo sul
piano dello stile riesce a suonare contemporaneo ed urgente. |