Una
sorpresa.
L’Hermine
(in italiano più banalmente La corte)
si è rivelato, con buona dose di stupore, una delle rivelazioni
inattese di Venezia 72: il cinema francese - soprattutto quello di
piglio più popolare - rincorre affannosamente modelli espressivi
sempre più consolidati, stantii e anestetizzanti dai quali però, a ben
vedere, attraverso un’alchemica mescolanza degli elementi costitutivi
del segno cinematografico è possibile - in maniera ovvia quanto
inattesa - ancora generare frutti dal sapore armonioso, delicato e
persistente capaci di saziare il languore e umettare l’occhio.
L’ermellino di cui il titolo originale fa riferimento, è quello della
toga indossata ogni giorno dal giudice e presidente della corte
d’Assise di Saint-Omer, nella regione nordoccidentale del passo di
Calais (una delle più povere della Francia), Xavier Racine, il cui
nome è diventato sinonimo di irreprensibile fermezza, rigore e
severità della pena. L’ermellino fin dalla prima inquadratura,
determina simbolicamente il ruolo e la posizione del potere, di chi
sta in cima alla piramide che stratifica la condizione sociale degli
individui con le loro disuguaglianze e i loro privilegi, poiché non è
tanto il processo del giovane accusato di aver ucciso la figlia di sei
mesi a costituire il nocciolo della tensione narrativa, quanto,
piuttosto, l’abile e complessa costituzione umana stabilita dal
triangolo magistrato, giuria popolare, imputati e testimoni. E se la
temibile compostezza dell’animo di Racine non si piega nemmeno di
fronte ad un’allarmane febbre stagionale da cui egli è afflitto nei
tre giorni del dibattito, a sconvolgerlo sarà la presenza tra i
giurati di una donna, un’anestesista di origini danesi conosciuta anni
prima, quando era stato ricoverato in ospedale e per la quale non è in
grado di trattenere uno stato d’animo puro e incontenibile.
L’aula del tribunale dunque rappresenta l’incontro e la riunione del
popolo, di tutte le classi che lo compongono assieme alle ambigue e
sottili differenziazioni e complessità e, assieme, il luogo per un
dibattimento interiore e un’indagine sottile e mai servilmente o
prepotentemente svelata dei sentimenti che ogni persona incarna con la
propria individualità e l’innocente consapevolezza che nulla di fatto
potrà mai modificare questa condizione assodata e ratificata. Tutta la
forza e la straordinaria, trattenuta, sottile carica espressiva del
giudice Racine è sorretta da una prova indimenticabile di Fabrice
Luchini, capace di donare e arricchire la scena e i testi di una
sceneggiatura minimale e finissima, intelligente e sofisticata del
sodale regista e sceneggiatore Christian Vincent,
con un’interpretazione che trascende la mimesi e svela, con uno
sguardo, il dirompere fragile dell’amor fou nello spirito di colui che
ha assunto la maschera cinica e razionale del rigore della legge e
dell’ossessione solipsistica per un’indifferente, composta e anodina
raffigurazione di sé.
Pertanto non sorprende il verdetto della giuria del festival veneziano
presieduta da Alfonso Cuaròn che ha assegnato il
premio per l’interpretazione di Luchini e per la sceneggiatura di
Vincent. Un doppio riconoscimento che costituisce un fatto
di una certa rilevanza per una commedia, d’autore certo - anche se un
autore riscoperto dato che dopo il folgorante esordio nel 1990 con
La timida
(La
discrète)
Vincent aveva preso una strada meno rifinita sul piano della messa in
scena e della definizione dei personaggi - e in costante equilibrio
tra registri diversi che sfumano dallo humor a fin quasi la tragedia.
E in questa dicotomica interpolazione di generi si scorge un respiro
classico nella struttura dell’operazione filmica operata da Vincent,
che dice: «La corte è un po’ come un teatro, con il pubblico, gli
attori, la sceneggiatura, le quinte. È il regno della parola, fondato
essenzialmente sulla natura orale del dibattito». Il cognome del
giudice, Racine, appare a questo punto meno casuale: il dramma di un
amore segreto mai compiuto verso l’unica donna che non si è forse mai
potuto amare davvero, il riconoscimento di un desiderio in grado di
sgretolare le granitiche certezze di una vita, l’esito incerto proprio
di ogni corrispondenza affettiva.
Ancora una volta emerge il racconto del sodalizio inestricabile tra la
macchina da presa e il misterioso resoconto delle pieghe della natura
umana. E non è poco, di questi tempi.
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