Chocolat, tratto dal best seller di Joanne
Harris, fa parte di un
nuovo, utile e amato filone sulla tolleranza, sull’accettazione, sulla
difficoltà dei diversi. In questo caso è la bella e magica Juliette
Binoche, che, come in «Cappuccetto rosso», arriva con la sua bambina in un
paesotto francese cattolico anni Cinquanta su uno scenario da operetta, e
apre la cioccolateria. Con opportune ricette essa scandalizza i
perbenisti, risveglia desideri sopiti, sistema affetti in crisi,
opponendosi al sindaco integralista e integerrimo. Metafora al cacao amaro
che si addolcisce al nostro sguardo, perché
Lasse Hallström
ama il
coraggio dei singoli e tira fuori il jolly, lo zingaro nomade e felice
Johnny Deep, dopo la fine del primo tempo per dare alla dolce protagonista
un’occasione di personale lieto fine dopo che la strategia della tensione
locale è arrivata al massimo pericolo. Sentimentale, maieutico ma non
retorico, curioso nella trovata della cioccolata che risale alle papille
dei Maya come strumento di felicità, il film con cinque nomination
all’Oscar (in America piace anche perché la cioccolata è un peccato
dietetico mortale) è una divertente extravaganza che rasenta la poesia.
Nel coro, un po’ manicheo, Alfred Molina, il sindaco di un solo ordine e
una sola morale, Judy Dench, straordinaria nonna che ritrova il nipote, la
mal maritata Lena Olin e il combattuto prevosto. Diciamolo non più con le
rose, ma con un cioccolatino, non a caso da tempo incartato in messaggi
amorosi tra i più kitch, ma forse anche dotato di un po’ di stregoneria
che rasenta la sensualità e fa far pace al mondo. |