Cosa fa di un regista un autore? Non solo la presenza, come diceva Bazin, di “uno stile che crea il senso”, ma anche di un’istanza culturale, di un idea da esprimere, del desiderio di narrare qualcosa che “si sente”, che sta a cuore. L’esordio di Carlo Mazzacurati con Notte italiana (1987) era stato proprio una sorpresa in tal senso (denuncia e malinconia, il legame con la propria terra e lo spaesamento esistenziale), la scoperta di un'Italia drammatica e impietosa (Un’altra vita - 1992) o di altre realtà in cui immergersi, stemperandole nella commedia (Il toro - 1994) o nei toni tragici (Vesna va veloce - 1996), avevano confermato l’originalità della sua verve, raffinata e intimista, nel panorama del cinema italiano. Ora, di fronte a L’amore ritrovato, si rimane perplessi. Bisognerebbe forse abbandonarsi del tutto alla suggestione di un racconto d’amore fuori dal tempo (apprezzandone la ricostruzione d’ambienti, la fotografia radiosa di Bigazzi, la nostalgia di un sentimento inesorabilmente perduto) perché, con un minimo di discernimento critico, si sente invece, su L’amore ritrovato, il peso di un emozione che non decolla, di un gioco di sguardi e sorrisi troppo impantanati nel leziosismo, di un respiro cinematografico lento e riflessivo che resta soffocato in una narrazione ripetitiva, talvolta opaca. Eppure l’idea di Mazzacurati di attingere ad uno scrittore come Cassola (il racconto “Una relazione”) per portare sullo schermo “i momenti di gioia e di dolore di una rapporto sentimentale coinvolgente” risultava sufficientemente intrigante. È il 1936 e Giovanni (Stefano Accorsi) è un impiegato di banca che nel suo viaggiare in treno tra casa e ufficio, reincontra Maria, una passione della sua giovinezza. Lei (Maya Sansa) con la sua bellezza dirompente, con la dolcezza del suo amore appassionato, paziente e sincero, sembra assorbilo totalmente, sembra fargli dimenticare moglie e figlio… Tra la copertura del lavoro pendolare e la rasserenante complicità dei paesaggi della riviera toscana, la loro relazione riesce a mantenersi salda, con momenti di tensione e parentesi di soave tenerezza. Ma alla fine tutto rientra inesorabilmente nei ranghi e, superata anche l’esperienza della guerra, resta solo il sapore amaro del rimpianto («Tu sei una donna straordinaria, e sei stata mia... Eravamo così felici, Maria»). L’occasione mancata è anche quella di Mazzacurati. La sua voglia di illuminare sullo schermo “la forza dell'autenticità dei sentimenti che non ha tempo” resta compressa in una forma estetizzante che non sempre prende anima. Se il regista sa accompagnare, in un fluido amalgama di pacatezza e sensualità, il tormento amoroso di Giovanni e Maria, l’autore e il pubblico non riescono a trepidare con loro. |